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Lo scontro è duro, durissimo. E a ben vedere non riguarda solo il tavolo convocato mercoledì da Bonafede ma si estende assai oltre, all’intera riforma penale, a tutto l’orizzonte disegnato dal guardasigilli per il nuovo processo. Con un comunicato di inedita asprezza l’Anm annuncia che non parteciperà «al tavolo tecnico convocato per il 26 febbraio dal ministro della Giustizia» per discutere, insieme con l’avvocatura, proprio del ddl penale. «Siamo stati costretti nostro malgrado a comunicarlo al ministro», riferisce la giunta presieduta da Luca Poniz. Un conflitto mai visto e politicamente clamoroso anche perché dissolve una volta per tutte la leggenda di un Movimento 5 Stelle amico dei magistrati. Non c’è affatto, quella organicità. Adesso a precipitare in una precarietà ancora più evidente è la stessa riforma del processo, già messa in discussione da un parte piccola ma decisiva della maggioranza qual è Italia Viva, con il netto dissenso dell’avvocatura sulla prescrizione e non solo, e ora con il no irreversibile delle toghe su un punto cardine ddl: «Ciò che rende inaccettabile il testo nel suo complesso e che impedisce, allo stato, ogni possibilità di confronto», scandisce la giunta dell’Anm, «è che le previsioni sulla durata delle indagini e dei processi siano accompagnate dall’introduzione di ulteriori sanzioni disciplinari a carico dei magistrati». Lo sviluppo del concetto è un attacco pesantissimo alla strategia del goverbo: la previsione secondo cui il giudice che non depositasse la sentenza nei tempi predeterminati, se sospettabile di negligenza, sia esposto a procedimento disciplinare è, per le toghe, una «norma manifesto», uno «slogan che si traduce in un ingeneroso e immeritato messaggio di sfiducia nei confronti dei magistrati italiani, che cede alla facile tentazione di scaricare sui singoli le inefficienze del sistema che, come tali, sono invece esclusiva responsabilità della politica». Additare i giudici come potenziali fannulloni «rischia di suscitare, soprattutto nei magistrati più giovani, la tentazione di una giustizia di carattere “difensivo” e burocratico, ancora una volta con l’evidente conseguenza di non rendere un buon servizio ai cittadini».Un no assoluto, e argomentato. Nessuna «interlocuzione fino a quando nel testo del ddl saranno contenute previsioni di questo tipo». È impossibile, per l’Anm, anche solo iniziare il confronto con il ministro, anche perché «determinarne per legge la durata, trattando allo stesso modo vicende di complessità molto diversa» vuol dire anche dimenticare che «uno dei fattori della durata dei processi è lo scrupolo nell’accertamento dei fatti e, in ultima analisi, la necessità di una piena tutela dei diritti dei cittadini». Adesso, il punto è che sulla necessità di considerare la «qualità della decisione» prioritaria rispetto alla «velocità» si è sempre schierato con nettezza proprio quel presidente del Cnf Andrea Mascherin da cui è partita la sollecitazione affinché Bonafede riconvocasse il tavolo tecnico. L’ultima volta, il vertice dell’istituzione forense aveva rinnovato la richiesta venerdì scorso. Bonafede l’aveva recepita lunedì con un post su facebook e l’altro ieri ha materialmente recapitato l’invito ad avvocati e magistrati per il 26 febbraio. Il comune interesse dell’avvocatura per la qualità che non può essere schiacciata dai tempi avrebbe forse potuto suggerire all’Anm di ribadirla proprio insieme con le rappresentanze forensi al tavolo ministeriale. L’aventino scelto dall’Anm è invece più esposto alla controffensiva politica, dunque meno efficace. Ma qui interviene la seconda lettura, certo subordinata al motivato dissenso sul merito ma utile a spiegare perché il confronto sia precipitato in modo così fragoroso. Il nodo è nel voto per il rinnovo del “parlamentino” Anm in programma il 22 marzo. Una tornata fin-du-monde. I riverberi del caso Palamara ridisegnano e avvelenano il campo. Con Magistratura indipendente, isolata dagli altri tre gruppi, unica a non far parte della giunta Poniz, che ha accusato gli altri di aver trascinato l’Associazione verso il rischio di «un compromesso al ribasso» con Bonafede. Addirittura di aver nascosto la sostanziale indisponibilità a rivedere le sanzioni ai giudici espressa dal ministro in un incontro di fine gennaio con la giunta Poniz. Pare improbabile che l’esecutivo del “sindacato” possa essersi assunto una simile responsabilità. Fatto sta che dopo tali accuse di asserita debolezza politica, dopo l’appello di “Mi” a «rovesciare gli equilibri», disertare il tavolo era, per il vertice dell’Anm, quasi inevitabile. La rottura sulla riforma è, dunque, dovuta anche alle tensioni interne alla magistratura. Anche se nel merito le ragioni ci sono, la forma cosi pesante scelta per esprimere il dissenso non si spiega senza lo sfondo elettorale. Ma una simile chiave di lettura, che pure non può essere ignorata, non cancella certo gli scenari fitti di incognite che si aprono ancor di più per la riforma Bonafede.