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La settimana scorsa è morto un ragazzo iracheno di vent’anni nel carcere di Trieste. Era uno dei ristretti in cella di isolamento in un’area dedicata a vari detenuti affetti da disagio psichico. A denunciare il tragico evento è stato Alessandro Giadrossi, il presidente della camera penale triestina che ha partecipato all’iniziativa “Ferragosto in carcere” promossa dal Partito Radicale. Le cause della morte sono però ancora da accertare.
D’altronde, nello stesso carcere, nel mese di ottobre, si era impiccato sempre in cella di isolamento un detenuto soprannominato “Tarzan”, un uomo, 46enne, di origini bosniache e arrestato per rapina. Soffriva di problemi psichiatrici, per questo non era un tipo tranquillo e quindi punito in isolamento. Ma questo avviene nelle patrie galere del Nord, come quelle del Sud.
In Sicilia c’è stato il caso di Samuele Bua. Aveva ventinove anni e si è ucciso, il 4 novembre, in una cella del carcere Pagliarelli, a Palermo. Soffriva di allucinazioni, manie di persecuzione. La diagnosi di schizofrenia e turbe comportamentali aveva preceduto il riconoscimento di una invalidità all'ottanta per cento. Era stato ricoverato, in una occasione, per le ferite ai polsi che si era inflitto da solo.
Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia, aveva espresso indignazione con parole dure: «Ormai è routine, non fa più notizia, tanto il detenuto è considerato un rifiuto. Il ministero non penserà nemmeno di fare una ispezione, sarebbe una perdita di tempo inutile secondo qualcuno. Io dico basta, non è giusto che avvengano tanti suicidi nel carcere, qualcosa non funziona. Questo ragazzo ha ricevuto tutte le cure necessarie? Gli psicologi e gli educatori lo hanno incontrato? Ci sono le relazioni quotidiane dei medici che avevano l'obbligo di visitarlo? Quanti giorni è stato in isolamento e perché non era nel reparto di psichiatria? Possibile che non ci siano responsabili della vita di un uomo o di una donna che entra nel carcere?».
Il problema dell’isolamento come sanzione disciplinare è stato molto discusso nel passato, soprattutto in merito all’utilizzo delle cosiddette “celle lisce”. Si chiamano così perché dentro non c’è nulla: non ci sono brande né sanitari ( i detenuti sono costretti a fare i loro bisogni sul pavimento), né finestre o maniglie, nessun tipo di appiglio. Viene utilizzata per sedare i detenuti che danno in escandescenza, oppure che compiono più volte atti di autolesionismo o tentativi di suicidio.
Un rimedio che molto spesso, però, risulta anche deleterio visto i casi di suicidio proprio all’interno di queste celle.
Come denunciato da Antigone anche attraverso il recente rapporto di metà anno sullo stato delle nostre carceri, molto spesso gli atti estremi si registrano nei reparti di isolamento. Proprio allo scopo di prevenire i suicidi in carcere, Antigone ha presentato nei mesi scorsi una proposta di legge che puntasse, tra le altre cose, a una riforma complessiva del regime dell’isolamento.
Secondo Antigone la prevenzione dei suicidi richiede l’approvazione di norme che assicurino maggiori contatti con l’esterno e con le persone più care, un minore isolamento affettivo, sociale e sensoriale. Il carcere, in sintesi, deve riprodurre la vita normale.
«Nella vita normale si incontrano persone, si hanno rapporti affettivi ed intimi, si telefona, si parla, non si sta mai soli per troppo tempo», spiega Antigone, aggiungendo che «va rinforzato il sistema delle relazioni affettive, vanno aumentate le telefonate, va evitato l’isolamento forzato dal mondo». L’associazione evidenza, appunto, che l’isolamento penitenziario fa male alla salute psichica del detenuto. «Durante l’isolamento è più frequente che ci si suicidi. Vanno posti limiti di tempo. Va abolita la norma obsoleta che prevede l’isolamento diurno per i pluri- ergastolani», conclude Antigone.