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Serve il processo? In Italia non tutti lo danno per scontato. C’è chi come Piercamillo Davigo e Nino Di Matteo si fermerebbe volentieri alle indagini, con la prescrizione e se possibile anche con l’accertamento: una volta che il pm ha raccolto le prove, di cos’altro c’è bisogno? Una esemplare – nella tragicità dei fatti – dimostrazione che si fa male a pensarla così viene dal processo a Duilio Poggiolini e ad altre 8 persone in corso a Napoli, e nel quale lunedì scorso il pm Lucio Giugliano ha chiesto l’assoluzione. Ebbene: a parte l’incredibile prova di tenuta esibita da una storia che risale, processualmente, ai primi anni Duemila e che si riferisce a fatti iniziati addirittura 40 anni fa, a parte l’ormai 90enne Poggiolini, la casa di cura abusiva in cui era stato trovato anni fa e tutto il corollario di mitologia nera di Tangentopoli, c’è anche una incredibile utilità “extrapenale”, verrebbe da dire, di questo processo, che realizza seppur informa capovolta la perfetta smentita delle ipotesi davighiane. Qui non siamo di fronte al dibattimento in cui emerge l’innocenza di una persona che l’accusa, nella fase preliminare, dava per sicura colpevole: ci troviamo casomai con una storia andata avanti per quasi quattro lustri grazie alla tenacia delle associazioni degli emofiliaci e che, pur nell’ormai chiara impossibilità di pervenire a delle condanne, consente di ricostruire storicamente i fatti comunque gravissimi richiamati nei capi di imputazione. Nello specifico, Poggiolini è tuttora imputato per omicidio colposo plurimo di 8 pazienti emofiliaci, l’ultimo deceduto nel 2011, insieme con 8 fra ex manager e dipendenti di alcune fra le maggiori case farmaceutiche italiane. Secondo lo stesso pm, l’accusa è indimostrabile: manca il nesso di causalità che è richiesto perché si possa parlare di omicidio. Più precisamente, non è stato possibile individuare le dosi di farmaco che hanno direttamente provocato il decesso di ciascuna delle 8 vittime. Il giudice monocratico del Tribunale di Napoli Antonio Palumbo difficilmente potrà decidere in modo diverso da quanto chiede la Procura.
Ma chiarire perché sia così difficile vuol dire risalire alla genesi dei fatti e spiegare anche per quale motivo va comunque considerato addirittura prezioso questo lungo processo. Vicenda giudiziaria che, visto il tempo trascorso, qualcuno potrebbe snobbare come un clamoroso dispendio di denaro. E invece, come vedremo tra un attimo, grazie al “processo Poggiolini” si è chiarito quanto sia importante evitare approvvigionamenti di sangue da donatori troppo remoti per essere davvero affidabili.
Tutto nasce assai prima che Poggiolini diventasse un simbolo del male nell’ancien régime della Prima Repubblica. Siamo ancora negli anni Settanta quando negli Stati Uniti avanzano dubbi sull’opportunità di accettare sangue donato, dietro pagamento, dai detenuti o dai cittadini di Paesi poveri. La Food and drug administration vieta l’uso di quel sangue all’interno degli Usa, incredibilmente ne lascia libero il commercio verso altri Paesi. È il primo atto di grave imprudenza. In molte carceri americane ci sono reclusi affetti da una patologia ancora sconosciuta: l’Aids. Altri hanno l’epatite C. In Italia alcune aziende farmaceutiche intendono acquistare quel sangue. Serve per produrre gli emoderivati. Non per fare trasfusioni, dunque, ma per curare pazienti emofiliaci, che a ogni minima distorsione generano ematomi. Già dal 1972 Duilio Poggiolini era un’importante funzionario del ministero della Salute, arriva quindi a dirigere il precursore dell’Aifa, ossia l’ufficio che autorizza tra l’altro l’acquisto di materiale biologico da parte dell’industria farmaceutica. C’è un broker canadese pronto a smerciare il sangue comprato nelle carceri americane. Poggiolini dà il via libera, in cambio di tangenti, secondo quanto accertato in un altro processo.
Grazie alla sua imprudenza, ma quando dell’Aids ancora non si sa nulla, dunque a inizio anni Ottanta, arriva il sangue rifiutato dagli americani. Secondo le ricostruzioni dell’accusa e delle parti civili, erano comunque ben noti i potenziali fattori di contagio, anche se non lo era la terribile malattia da immunodeficienza, scoperta solo nell’ 85. La contraggono centinaia di pazienti italiani che acquistano farmaci prodotti col sangue che viene dall’Arkansas e dal Tennessee. Contraggono l’epatite B e C, oltre all’Aids. A inizio anni Duemila viene aperta la prima indagine. A Trento, distretto di residenza della prima persona deceduta. Si parte con l’accusa di epidemia colposa, comunque difficile da strutturare. Il processo arriva a Napoli nel 2003, passano un paio d’anni, la Procura è decisa chiedere l’archiviazione. Qui entrano in gioco le associazioni degli emofiliaci: il gup Maria Vittoria De Simone ( poi passato alla Dna) le ascolta e dispone l’imputazione coatta: non più epidemia ma omicidio colposo plurimo. Scelta processuale impegnativa, ma appunto preziosa.
Passano però altri anni, finché le parti civili convincono Beatrice Lorenzin, nuova ministra della Salute, a superare il parere contrario dell’avvocatura dello Stato e a costiuire come parte civile il ministero stesso. A sua volta l’avvocatura cambia linea e sceglie di inoltrarsi, peraltro con grande determinazione, nella nuova fase processuale. Ne viene un percorso di revisione storica. Emerge che Poggiolini non poteva ovviamente sapere dell’Aids, ma che la sua condotta sarebbe stata a un passo dal dolo eventuale. Solo che non è possibile stabilire appunto quali determinate dosi di farmaco avessero provocato ciascuno dei decessi. Anche perché quando le aziende italiane, autorizzate da Poggiolini, acquistarono il sangue Usa dal broker canadese, si seguirono processi di produzione su larga scala: le sacche di sangue venivano mescolate a gruppi di 20, quindi se pure i malati di Aids ed epatite C, fra i donatori, fossero stati pochi, i virus sarebbero comunque finiti nella maggior parte dei casi, negli emoderivati. Altre case farmaceutiche producevano anticoagulanti con approvvigionamenti memo spericolati, e visto che quasi tutti i pazienti acquistavano farmaci da industrie diverse, era impossibile stabilire il nesso tra singole somministrazioni e singole morti.
Ci ha provato, l’avvocatura dello Stato, insieme con il dirigente del ministero Lorenzo Montrasio, che da consulente di parte ha sostenuto come ogni singola somministrazione infetta contribuisse a condurre il paziente alla morte. Il collegio dei periti non lo ha seguìto. Ma Montrasio ha trovato conferma delle sue diffidenze verso il commercio disinvolto di farmaci di derivazione biologica: ha bloccato per esempio l’acquisto, da parte del ministero, di sacche di sangue raccolte in Iran. Prudenza che Poggiolini e i vertici delle case farmaceutiche italiane non ebbero. Ma che oggi, anche grazie al processo a loro carico, si è finalmente radicata, nel ricordo doloroso delle vittime e nella consapevolezza delle nostre istituzioni.