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Marta Cartabia, la nuova ministra della Giustizia, e al diavolo chi sostiene che se ne debba scrivere come del ministro, al maschile, è giustamente attesa alla prova, anche dagli estimatori, col problema spinosissimo della prescrizione. Che la guardasigilli ha già avuto il merito di sottrarre allo strumento, o all’arma assai impropria del decreto legge delle “mille proroghe”, cui i sostenitori di una modifica garantista ed equilibrata erano stati costretti a ricorrere dal predecessore Alfonso Bonafede. Costretti, perché il convoglio più attrezzato era ed è quello del disegno di legge di riforma del processo penale, tuttavia reso praticamente inagibile da Bonafede perché messo sul binario nemmeno di un accelerato, ma di un omnibus. Se ancora ne esistono in circolazione, esso si ferma ad ogni stazione e sfinisce i viaggiatori anche più pazienti.A rallentarne ulteriormente il viaggio si era messa anche la pandemia, o il pretestuoso uso fattone dagli interessati a lasciare il più a lungo possibile in vigore la norma attuale. Che, introdotta come una supposta da Bonafede nella legge nota come “spazzacorrotti”, di fatto ha abolito la prescrizione facendola valere sino alla sentenza di primo grado. Emessa la quale, anche per gli assolti il procedimento promosso dall’appello della pubblica accusa potrebbe sulla carta proseguire all’infinito, e l’imputato rimanere tale a vita. Incredibile ma vero, alla faccia della ”ragionevole durata” del processo imposta da una modifica all’articolo 11 della Costituzione introdotta nell’autunno del 1999. La nuova ministra col prestigio accresciuto da giudice e poi anche presidente della Corte Costituzionale ha fatto scendere i riformatori dal convoglio improprio delle mille proroghe e ha restituito loro l’agibilità vera del convoglio del processo penale, dando anche un supplemento di tempo, sino a fine mese, per la presentazione dei cosiddetti emendamenti. E tutti aspettano ora di vedere come si tradurrà davvero in ragionevole la durata del processo penale rendendo persino superflua la vecchia prescrizione, e pure l’abuso fattone da imputati e anche da uffici giudiziari -perché negarlo?- esercitando a velocità assai discrezionale la cosiddetta, e un pò ipocrita, obbligatorietà dell’azione penale.Forza, ministra, ci faccia sognare, anche a costo di portare alla disperazione quelli che il buon Carlo Nordio, ormai in pensione, scrivendo di certi suoi colleghi definisce “giacobini”, anziché giustizialisti o manettari, secondo certo linguaggio giornalistico. Ma ci faccia sognare, signora ministra, anche su un altro terreno, che chiamerei di bonifica del dicastero della Giustizia. Dove la presenza dei magistrati è alquanto sproporzionata rispetto all’organico, per quantità e qualità di posti, sino a dare l’impressione -magari a torto, per carità, ma in certe situazioni, come diceva la buonanima del presidente Sandro Pertini parlando proprio della giustizia, ciò che appare vale più della realtà- che il Ministero sia praticamente nelle mani delle toghe. Che finiscono spesso per trovarsi in conflitti anche inconsapevoli d’interesse, sia pure con distacchi regolarmente concessi dal Consiglio Superiore della Magistratura. Dove peraltro i togati sono già sufficientemente tutelati dai rapporti numerici con i cosiddetti “laici” nella difesa della loro indipendenza, autonomia e via dicendo, e rivendicando. Potremmo anche pubblicare l’elenco completo, aggiornato a meno di un mese fa, dei 162 magistrati fuori ruolo, distaccati in buona parte proprio al Ministero della Giustizia, ma non lo facciamo per ragioni di stile, ritenendo anche questo, come altri di cui ci siamo occupati, un problema non di nomi, bensì di metodo. Dobbiamo dire con tutta onestà che questa storia del Ministero della Giustizia sovraffollato di magistrati, se non da loro occupato, come si dolgono i non magistrati che vi lavorano e debbono poter fare carriera dopo avere vinto i loro bravi concorsi, è abbastanza vecchia per attribuirne colpe e responsabilità un po’ a tutti quelli che si sono avvicendati politicamente al vertice del dicastero, tra prima, seconda, terza e quarta Repubblica, se veramente siamo davvero arrivati alla quarta rappresentata in alcune trasmissioni televisive. Ne sono rimasti vittime più o meno inconsapevoli anche fior di giuristi diventati ministri della Giustizia, come la buonanima di Giuliano Vassalli. Ai cui tempi risale, precisamente all’inizio del 1988, quando egli era guardasigilli del primo e unico governo del democristiano Giovanni Goria, quella legge sulla responsabilità civile dei magistrati elaborata nell’ufficio legislativo del dicastero, il più affollato abitualmente di toghe, con cui fu praticamente vanificato il risultato positivo di un referendum promosso per fare rispondere davvero dei loro errori anche quanti amministrano la giustizia. Fu proprio puntando su quello strumento di intervento sostanzialmente demolitorio che il Pci e la sinistra democristiana, allora alla guida della Dc, si schierarono nell’autunno del 1987 nel referendum a favore dello scontato esito positivo, dopo averlo ostacolato in ogni modo nella primavera precedente, sino a provocarne il rinvio col ricorso alle elezioni anticipate. Quel referendum, già indetto per aprile, era stato lo scoglio, insieme al referendum sull’energia nucleare, contro il quale s’era infranto il secondo governo di Bettino Craxi, sostituito dal sesto e ultimo governo di Amintore Fanfani. Era un monocolore democristiano per la cui bocciatura nell’aula di Montecitorio, propedeutica allo scioglimento anticipato delle Camere, la Dc di Ciriaco De Mita era arrivata ad una clamorosa astensione, vanificando il voto di fiducia accordato dal Psi nel tentativo di salvare legislatura e referendum. Marta Cartabia a quell’epoca aveva solo 25 anni, beata lei, ancora fresca di laurea con lode in giurisprudenza all’Università di Milano, ma già ben attrezzata per leggere appropriatamente fatti e sottintesi, e ora ricordarsene, alla testa del Ministero di via Arenula, per cambiare registro.