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Nessuno ci avrebbe mai scommesso, ma può accadere che il fronte giustizialista della magistratura si spacchi sulla tesi della presunta trattativa Stato Mafia. Da una parte ci sono i Pm che hanno imbastito il processo che vede alla sbarra alcuni imputati tra i quali gli ex Ros e l’ex senatore Marcello Dell’Utri per aver minacciato i governi del 92 -93 attraverso presunte richieste mafiose; dall’altra ci sono i fautori dell’inchiesta mani pulite che – attraverso le loro dichiarazioni – smontano i pilastri che reggono la tesi processuale. Dell’ex giudice Antonio Di Pietro è stato già ampiamente detto, soprattutto quando – da testimone – ha inquadrato che la casuale delle stragi mafiose di Capaci e di Via D’Amelio in cui persero la vita Falcone e Borsellino sono da inquadrare nell’ interessamento da parte di quest’ultimi per il dossier mafia appalti e del collegamento con l’indagine milanese. Ora, grazie alla richiesta di acquisizione degli atti da parte di Basilio Milio e Francesco Romito, legali degli ex ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, si viene a conoscenza delle sommarie informazioni rese dal magistrato Piercamillo Davigo alla Procura di Palermo il 20 settembre 2012. Testimonianza, quella di Davigo, non di poco conto perché egli era legato da una lunga amicizia con il dottor Francesco Di Maggio, ex vicecapo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. L’attuale consigliere del Csm aveva precisato determinate circostanze in merito a quello che era l'orientamento, in generale, del Di Maggio sul modo di fare il suo lavoro da magistrato sul contrasto alla criminalità organizzata. Dalla descrizione fatta da Davigo, l’ex vicecapo del Dap non appare come una persona moderata e con una forma mentis di contrasto ai metodi forti. Anzi, tutt’altro. «Una volta – ha raccontato Davigo - mi parlò di avere creato una squadra di agenti di Polizia penitenziaria Barbaricini per sorvegliare Riina e mi fece una battuta, quando Riina gli rivolge la parola gli dicono: 'Taci, prigioniero!'. Mi rimase impressa questa cosa ma non mi disse mai null'altro della sua attività. Tra l'altro, appunto era, anche questo era assolutamente in linea con l'idea che io avevo di lui, per cui quando ho letto sui giornali queste notizie sono rimasto assolutamente sorpreso perché continuo a ritenere del tutto inverosimile che lui possa avere avuto parte a una cosa di questo genere perché è così lontana dal suo modo di essere, perché era un soggetto per certi versi molto simile a me, poco incline alla mediazione». Ciò che ha detto Davigo, è in linea con quanto raccontato da Andrea Calabria, ex direttore dell’ufficio detenuti del Dap. Quest’ultimo ha raccontato che con Di Maggio non scorreva buon sangue, descrivendolo come un accentratore, poco incline alla collegialità e non amante della burocrazia. La testimonianza di Davigo va a rafforzare ciò che in realtà già scrissero i giudici che hanno assolto Calogero Mannino nel rito abbreviato, accusato di aver avviato la presunta trattativa stato mafia. Secondo la tesi accusatoria, l’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro si adoperò per rimuovere dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Niccolò Amato, ritenuto troppo duro con i boss, e per sostituirlo con Adalberto Capriotti (con Francesco Di Maggio come vice), nel giugno del 1993. Fu lì, secondo l’accusa, che il Dap avrebbe soddisfatto la richiesta di Totò Riina. Ovvero di non prorogare il 41 bis ai mafiosi. Tutto falso. La vicenda è originata dall’invio della nota del 29 ottobre, finalizzata ad aprire – dopo la sentenza della Corte costituzionale che invitava il governo a valutare il 41 bis caso per caso – un’articolata istruttoria con le autorità giudiziarie e di polizia competenti, per acquisirne i relativi pareri. Così avvenne. Dei 336 detenuti non sottoposti al rinnovo, soltanto 18 appartenevano alla mafia (a sette dei quali, peraltro, nel giro di poco tempo, nuovamente riapplicato). Dunque gli aderenti a Cosa nostra erano pari a meno del 5,5% di tutti i detenuti con decreto in scadenza. Ma non solo. I giudici che hanno assolto Mannino scrivono che «né dalla Procura di Palermo, all’uopo interpellata, né dalla Dia, né dalla Dna, né dalle altre forze politiche richieste di parere, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro».