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Gian Domenico Caiazza
Sulla separazione delle carriere pesa una teoria tendenziosa: sottrarrebbe i pm a quella cultura della giurisdizione che, dicono gli oppoositori della riforma, solo la natura attualmente ibrida del loro ordinamento potrebbe preservare. Una sentenza inappellabile, ma di fatto priva di motivazioni serie, che ha finora polarizzato il dibattito. Sarà un caso, ma la legge promossa dall’Unione Camere penali ha avuto un percorso parlamentare quasi oscurato: chi è contrario, come una parte dei 5 Stelle, avrebbe preferito non farla neppure approdare in Aula. E invece lunedì la legge sulle carriere separate sarà finalmente esaminata nell’emiciclo di Montecitorio. Cosicchè i penalisti italiani hanno ritenuto ieri di inviare una lettera a tutti i deputati. Un testo firmato dal presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza e dal presidente del Comitato promotore sulla separazione delle carriere Beniamino Migliucci. I quali chiudono con una certezza: «Il dibattito parlamentare che finalmente si celebrerà sul tema, grazie alla iniziativa popolare promossa dalle Camere Penali Italiane, saprà onorare l’importanza della questione, memore del fatto che oltre 70mila persone abbiano sottoscritto la nostra proposta e che nel 2000 oltre 9 milioni di cittadini ebbero a votare sì al referendum dei radicali per la separazione delle carriere».
Nella lettera si ricorda come il vero effetto della riforma non consista nella creazione di un pm- poliziotto, casomai nel rafforzamento della terzietà del giudice come garanzia per il contraddittorio tra le parti e la legalità. A essere limitato sarà solo lo squilibrio che ha dato ai capi delle Procure «un potere incontrollato e incontrollabile». Basta la logica, scrivono Migliucci e Caiazza, per ricordare che «qualora il giudice non sia strutturalmente distinto rispetto a chi accusa e a chi difende, difficilmente potrà essere e apparire garante della legalità del processo». Potenziare il ruolo del giudicante, ricorda l’Ucpi, «non indebolirebbe ruolo e funzione del pm, che conserva chiaramente la propria autonomia e indipendenza dal potere politico». Casomai «un giudice effettivamente terzo e percepito come tale dalla comunità conferirebbe autorevolezza alle decisioni e riaffermerebbe il principio della presunzione di innocenza attribuendo finalmente valore preminente alle sentenze rispetto alle indagini». Il giudice deve essere «garante dei diritti e delle libertà di tutti», e non si dovrà più confondere il processo penale con «uno strumento di lotta a questo o quel fenomeno criminale». Vengono infine citate le parole di Giovanni Falcone: «Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pm che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento dove egli rappresenta una parte in causa. Non deve avere nessun tipo di parentela con il giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di paragiudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudice e pm siano, in realtà, indistinguibili. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il pm sotto il controllo dell’esecutivo».