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Né un’assoluzione né una condanna per Marco Cappato, ma di certo una vittoria. La Corte d’Assise di Milano ha deciso di inviare alla Consulta gli atti affinché valuti la costituzionalità del reato che lo vede accusato, cioè aver aiutato Fabiano Antonioni, alias dj Fabo, a morire in una clinica svizzera ricorrendo al suicidio assistito. La Corte costituzionale è chiamata a chiarire la legittimità dell’articolo 580 del codice penale, nella parte in cui «incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione», in quanto in violazione di alcuni articoli della Costituzione e degli articoli 2 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nella lunga e articolata ordinanza, letta in aula alla presenza della fidanzata di Fabo, Valeria Imbrogno, i giudici hanno rimarcato il diritto costituzionale di ciascuno alla libertà di decidere «quando e come morire» e che di conseguenza solo le azioni che pregiudicano la libertà di tale decisione possono costituire «offesa al bene tutelato dalla norma in esame». Altra questione da dirimere riguarda la pena prevista dal reato, che non fa distinzione tra istigazione e aiuto. Per la Corte, le azioni che non incidono «sul percorso deliberativo dell’esecuzione dell’aspirante suicida non sono «sanzionabili», cristallizzando, di fatto, l’innocenza di Cappato. Quella di morire, hanno dimostrato le testimonianze in aula, fu una decisione lucida e cosciente del 40enne milanese Fabiano, rimasto tetraplegico e cieco per due anni e 9 mesi dopo un grave incidente d’auto prima di prendere l’irremovibile decisione di ricorrere al suicidio assistito. Una decisione presa rifiutando l’alternativa italiana, ovvero la sospensione delle cure, che pure era stata prospettata dallo stesso Cappato. Erano stati i pubblici ministeri Tiziana Siciliano e Sara Arduini a suggerire, in subordine all’assoluzione «perché il fatto non sussiste», l’invio degli atti alla Consulta. Suggerimento che la Corte d’Assise di Milano, presieduta dal Ilio Mannucci Pacini, ha fatto proprio, richiamando numerose sentenze, tra cui anche quelle relative ai casi Welby ed Englaro. Il comportamento di Cappato, che accompagnò l’uomo nella clinica Dignitas, dove strinse tra i denti il pulsante col quale si iniettò il veleno, «non ha inciso sulla decisione di Antoniani di mettere fine alla sua vita e quindi va assolto dall’accusa di aver rafforzato il suo proposito suicidiario». Dopo la lettura dell’ordinanza, il radicale ha ringraziato la scelta di Fabiano «per quello che ha fatto e che clandestinamente fanno molte persone ogni anno», ricordando inoltre «che in Parlamento giace da 32 anni» una legge sul fine vita: «è ora che la politica agisca». Cappato, commosso, ha poi affermato che «aiutare Fabo era un mio dovere, la Consulta stabilirà se era anche un mio diritto e soprattutto un suo diritto». Soddisfatta anche la fidanzata del 40enne. «Siamo felici - ha detto sorridendo -. Era quello che volevamo».La decisione ha messo, dunque, d’accordo tutti. Per il procuratore aggiunto Siciliano si tratta infatti di «un’ordinanza giuridicamente impeccabile», in grado di fornire «fortissimi elementi di valutazione alla Consulta». Cappato, prima della sentenza, aveva chiarito che «piuttosto che essere assolto per un aiuto giudicato irrilevante, mentre è stato determinante, preferirei essere condannato. Altro sarebbe essere assolto per incostituzionalità del reato. Perché altrimenti si accetterebbe che solo chi è in grado di raggiungere la Svizzera può essere libero di scegliere». Un pensiero condiviso dall’associazione Luca Coscioni tramite le parole dell’avvocato Filomena Gallo, per la quale la decisione dei giudici rappresenta «un’occasione senza precedenti» per superare un reato introdotto nell’epoca fascista «e per le persone capaci di intendere, affette da patologie irreversibili con sofferenze per ottenere legalmente l’assistenza per morire senza soffrire anche in Italia».Nell’articolata requisitoria dello scorso 17 gennaio, l’accusa aveva evidenziato come l’esponente dei Radicali non avesse aiutato Fabo a suicidarsi, ma soltanto ad esercitare il proprio «diritto alla dignità». Nel momento esecutivo del suicidio, Cappato era fuori dalla clinica e non poteva dunque essere considerata un aiuto al suicidio la sua presenza a fianco di Antoniani nelle fasi pregresse. Il radicale è finito a processo su decisione del gip Luigi Gargiulo, che ha disposto l’imputazione coatta dopo aver respinto la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura. Per la quale, però, «non ha rafforzato il proposito suicidario di Fabiano, ma semplicemente rispettato la sua volontà».