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È in atto un confronto come tra guelfi e ghibellini. Riguarda il numero chiuso per l'accesso alla facoltà di medicina e chirurgia: numero chiuso che dovrebbe garantire la formazione di medici preparati, ma che blocca in partenza molti di quanti vorrebbero diventare medici.
Era nel contratto di governo, è oggetto di proposte di legge ( una del Consiglio regionale del Veneto, dove il tema è assai sentito): ma il superamento del numero chiuso non c'è stato, forse ci sarà un aggiustamento nel numero dei posti banditi. Nel frattempo, da più parti viene segnalata una carenza di medici sempre più allarmante.
Prima però di schierarsi con i guelfi o con i ghibellini, bisogna tornare alla base, verificando ciò che diamo per scontato.
La base è una legge, che compie ora vent'anni, nota come ' legge Zecchino'. Una legge davvero di grande impatto. Un dato: lo scorso anno, su 60.000 iscritti ai test, i posti disponibili erano 10.000, in un rapporto di 6 a 1. In vent'anni, svariate centinaia di migliaia di aspiranti medici hanno dovuto cambiare aspirazione. Per non dire degli effetti di sistema ( se solo certe facoltà sono a numero chiuso, ciò incide anche su quelle che non lo sono), o dell'indotto ( che deriva dalla necessità per decine di migliaia di studenti ogni anno di prepararsi a test da cui dipende la loro vita, professionale e non solo).
Nei pochi articoli di quella legge c'è tutto: una programmazione nazionale che porta a determinare, di anno in anno, il numero complessivo delle immatricolazioni consentite; i criteri da considerare ( che sono l'offerta potenziale del sistema universitario e il fabbisogno di professionalità); i test, la cui importanza è fondamentale ( possono far stare fuori qualcuno che sarebbe stato un buon medico ma non li azzecca, o far entrare qualcuno che li azzecca ma che un buon medico non lo sarà mai).
Dovrebbero, dice la legge, svelare la predisposizione dei candidati per la medicina.
Sullo sfondo, le scuole di specializzazione: la preparazione di un medico è cosa lunga, e richiede non solo la laurea ma anche ulteriori cinque o sei anni per conseguire il titolo di specialista. Dunque diventa necessario accedere a tali scuole, che sono coordinate con il servizio sanitario nazionale, e che comportano un costo pubblico ( anche perché deve essere riconosciuto un corrispettivo agli specializzandi che vi prestano la propria opera). Questo, all'incirca, il sistema. Lede il diritto all'istruzione? La Corte europea dei diritti dell'uomo lo esclude. È un sistema imposto dall'Europa? No, gli Stati membri sono liberi di scegliere un accesso aperto o uno regolamentato. Quello che non si può fare è di impedire a chi esercita la libertà di circolazione e va a studiare all'estero, di ritornare e iscriversi in una università italiana anche senza aver passato il test. È un sistema che rispetta i valori costituzionali? La risposta non è scontata. La Corte non ha finora censurato la disciplina. Ma non l'ha neppure esaminata a fondo: ha esaminato le questioni, inammissibili, che le sono giunte.
Certo, sono in gioco numerosi interessi costituzionali. Dal diritto all'istruzione, alla tutela della salute; dal diritto al lavoro, all'autonomia universitaria. E la programmazione nazionale delle professioni non può essere un fatto normale: non spetta allo Stato stabilire quanti medici, quanti avvocati, ma allora anche quanti imbianchini o quanti giornalisti, servono alla società. Si giustifica per le ragioni tecniche legate a una certa professione.
Medici e avvocati sono entrambe professioni di rilievo costituzionale, perché legate una alla tutela della salute, l'altra al diritto di difesa. Però la disciplina del loro accesso è profondamente diversa, come testimoniano i numeri. Ciò è giustificato solo se la diversità delle esigenze strutturali lo giustifica.
Insomma: è un problema di strutture. Sotto un profilo generale, la libertà di studio e di scelta della propria attività viene prima delle strutture: l'offerta deve potersi adeguare alla domanda. Certo, per la professione medica la situazione è più complessa, le strutture necessarie alla formazione non sono solo le aule universitarie, e se ne deve tener conto. Però non può esserci un'inversione logica: non si può solo andare a ritroso, dalle strutture al numero di quanti possono accedere alla facoltà e dunque alla professione medica, deve esserci un rapporto biunivoco. E soprattutto, siccome si tratta del futuro delle nostre vite, su tutto ciò è necessario non solo il dibattito ma la consapevolezza informata dell'opinione pubblica.
Stefano Bigolaro
* presidente Associazione veneta degli avvocati amministrativisti