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In estrema sintesi: all’ex fidanzato, stalker, il gip dispone il divieto di avvicinamento, ma senza braccialetto elettronico perché, dice il capo del suo ufficio, «si può dare solo in caso di arresti domiciliari». Soltanto dopo si scopre che invece il provvedimento del braccialetto elettronico si poteva adottare eccome, dato che è previsto dalla legge 69/2019 che ha modificato l’articolo 282 ter comma 2 del codice di procedura penale, come ha spiegato Valeria Valente, senatrice Pd e presidente della commissione parlamentare contro le violenze di genere su queste colonne. Il risultato è che Vanessa Zappalà è stata uccisa, il suo stalker, Antonino Sciuto, si è suicidato e due morti, forse, potevano essere evitate semplicemente applicando le norme in vigore. La storia che ha sconvolto la piccola frazione di Aci Trezza, celebre per i racconti di Giovanni Verga e dei suoi Malavoglia, questa volta non ha a che fare con famiglie sfortunate e lupini, ma con un’amministrazione della giustizia che spesso fa acqua da tutte le parti e con uno Stato che non riesce a proteggere un suo cittadino in pericolo. Andando con ordine, tutto nasce dalla denuncia di Vanessa, che trova il coraggio di andare in Questura e rendere pubbliche quelle molestie dell’ex fidanzato che ormai erano diventate quotidiane. L’uomo viene accusato di stalking, il gip dispone il divieto di avvicinamento ma è tutto inutile. Nella notte tra domenica e lunedì la raggiunge sul lungomare, dove la ragazza stava passeggiando con alcune amiche, la afferra per i capelli e le spara sette colpi di pistola calibro 7,65. Altri 28 proiettili verranno ritrovati nell’auto dell’uomo, che a neanche ventiquattr’ore dall’omicidio si impicca in un casolare di campagna. Una tragedia dopo la quale si scatenano le fazioni più diverse. Il padre della vittima è netto: «Con le leggi giuste – denuncia – si sarebbe potuto evitare l’omicidio di mia figlia, ma anche quelli che ci sono stati e quelli che verranno dopo, perché ancora ce ne saranno». Secondo le amiche della ragazza Antonino era un «padre padrone» che la voleva solo per lui, mentre Marisa Scavo, procuratrice aggiunta a Catania, spiega a La Sicilia che «non aumentare il minimo della pena a due anni per il reato di stalking è un limite enorme, perché ci impedisce di effettuare il fermo nei casi in cui non c’è flagranza». Ma dopo pochi giorni il focus si sposta su un altro tema, e cioè sulla possibilità che allo stalker potesse essere applicato un braccialetto elettronico per tenerlo sotto controllo ed evitare così che potesse avvicinarsi alla vittima. La miccia è accesa da Nunzio Sarpietro, capo dell’ufficio gip di Catania, che in un’intervista a Repubblica spiega che «quel provvedimento si può adottare solo in caso di arresti domiciliari». Falso, perché la legge 69/2019 recante “disposizioni in tema di violenza domestica e di genere” è chiara e «modifica la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa per consentire al giudice di garantire il rispetto della misura coercitiva attraverso procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici (c.d. braccialetto elettronico)». Inequivocabile. Ora il giudice Sarpietro dice che l’intervista è stata tagliata male e che il problema è che i braccialetti non ci sono, e quindi anche volendo non potrebbero essere utilizzati. Ma tra gli addetti ai lavori l’errore del gip viene definito «inconcepibile», come spiega una fonte giudizaria che preferisce restare anonima. «È un caso sorprendente perché di quella legge si parlò molto. Quando entrò in vigore la legge sullo stalking nel primo mese ci furono mille arresti - commenta - Sono norme di cui si discute molto e non posso credere che l’errore del gip di Catania si possa ripetere in altri uffici giudiziari». Eppure, di passi avanti in tema di legislazione a difesa delle vittime di maltrattamenti e violenze ne sono stati fatti, se è vero che proprio la stessa legge 69/2019 inserisce il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi «nell’elenco dei delitti che consentono nei confronti degli indiziati l’applicazione di misure di prevenzione, tra le quali è inserita la misura del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona da proteggere». Cioè esattamente quanto deciso nei confronti di Antonino Sciuto, senza risultati. «Quando si arresta in flagranza e in poche ore si deve decidere cosa fare, ad esempio se decidere per gli arresti domiciliari e il carcere, e allo stesso tempo il reo inizia piangere, diventa un agnellino e dice che vuole bene alla ex ragazza, spesso si incappa nello stesso errore che ha fatto il gip di Catania nel momento in cui ha deciso di lasciarlo fuori piuttosto che metterlo dentro - commenta la nostra fonte - Mettere tutti in carcere non è di certo la soluzione, ma dall’altro lato si rischia di sottovalutare il rischio per la vittima». Di certo c’è anche un problema di mancanza di braccialetti elettronici, tema diventato centrale nel dibattito durante le rivolte in carcere in piena epidemia di coronavirus, e averne di più a disposizione permetterebbe sia di svuotare in parte i penitenziari, già sovraffollati, sia di controllare con maggiore attenzione gli accusati di maltrattamenti. E se è vero che «bisogna conoscere, per deliberare», potremmo dire che bisogna conoscere, per applicare le misure cautelari. Pena la perdita, forse evitabile, di vite umane.