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È forse il mafioso colpevole delle più atroci mostruosità. Compiute contro lo Stato come contro altri mafiosi e loro familiari. Con la stessa feroce noncuranza, l’oggi 62enne Giovanni Brusca ha materialmente spinto il bottone che provocò l’esplosione di Capaci, dunque la morte di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e degli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, così come ha ordinato di uccidere, per strangolamento, un ragazzino di 14 anni, Giuseppe Di Matteo, colpevole di avere un padre pentito, Santino, e sciolto in un bidone di acido dopo l’esecuzione. Brusca è dunque un simbolo. Più di Totò Riina. Simbolo di una indole criminale estrema. Ecco perché se oggi la prima sezione della Suprema Corte di Cassazione, dopo l’udienza di ieri, decidesse di concedergli i domiciliari, cambierebbe in modo definitivo, irreversibile, l’orientamento della giustizia italiana rispetto alla funzione rieducativa della pena. Se anche nel più crudele dei malavitosi, con un curriculum di omicidi che lui stesso fatica a collocare tra quota 100 e quota 200, si possono scorgere i segni del ravvedimento e del compiuto recupero sociale, sarà assai più difficile mostrare in futuro l’intransigenza cieca e irriducibile esibita finora con mafiosi e con criminali di altra natura.
Antonella Cassandro e Manfredo Fiormonti, difensori di Brusca, hanno chiesto alla Suprema corte di riformare l’ordinanza con cui nel marzo scorso il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha rigettato l’istanza di commutazione della pena da detentiva a domiciliare. Non è il primo ricorso, né si è trattato del primo rigetto: anche qui i numeri sono da record, visto che siamo a quota 9. Stavolta però è diverso. Perché a marzo per la prima volta dal 2002, la Procura nazionale antimafia, chiamata a esprimere il proprio parere sulla compatibilità del beneficio penitenziario con il percorso del detenuto, ha espresso valutazione favorevole. Secondo l’ufficio diretto da Federico Cafiero de Raho, infatti, Brusca può dirsi «ravveduto». E appunto, gli avvocati Cassandro e Fiormonti sono certi che il giudice di sorveglianza, nel respingere l’istanza di 7 mesi fa, non abbia tenuto nella giusta considerazione il giudizio della Dna.
La Procura antimafia ha dichiarato che «il contributo offerto da Brusca nel corso degli anni è stato attentamente vagliato e ripetutamente ritenuto attendibile da diversi organi giurisdizionali, sia sotto il profilo della credibilità soggettiva del collaboratore, sia sotto il profilo della attendibilità oggettiva delle singole dichiarazioni». In realtà non sempre le verità offerte dal superboss sono state suffragate dai riscontri processuali. Non nel processo a Calogero Mannino, per esempio. Negli anni lo stesso Brusca ha ammesso che alcune sue ricostruzioni sono state poco altro che una riproposizione di fatti ascoltati, da detenuto, in televisione. Ma visto che in altri casi le sue parole hanno trovato corrispondenza nelle verità processuali delle sentenze, la Dna ritiene sussista anche un’implicita prova del suo ravvedimento umano: «Sono stati acquisiti elementi rilevanti ai fini del ravvedimento del Brusca», desumibili appunto sia dalle sentenze che hanno riconosciuto «la centralità e rilevanza del contributo dichiarativo del collaboratore», sia da «relazioni e pareri sul comportamento di Brusca in ambito carcerario e nel corso della fruizione dei precedenti permessi».
Giovanni Brusca non è un ergastolano. I suoi delitti, che appunto si contano oltre il centinaio solo per stare agli omicidi, non hanno dato luogo a un fine pena mai proprio in virtù della «collaborazione». È stato condannato a 30 anni. Ne ha già trascorsi 23 in carcere ( ora è a Rebibbia, è recluso dal 1996). Nel novembre 2021, tra poco più di 2 anni, sarebbe comunque a fine pena, dunque libero. Un aspetto non irrilevante. Eppure non è la materia in base alla quale la Cassazione scioglierà il rebus. Innanzitutto valuterà se il giudice di sorveglianza è stato coerente nel ritenere insufficienti le risultanze trattamentali — costruite sì sulla base anche dell’attendibilità della collaborazione, ma prima ancora sulla sua condotta di detenuto —. Se cioè il diniego del Tribunale sia stato costruito in modo solido, se il giudice è stato lineare nel rigettare l’istanza in virtù del principio secondo cui «per un mafioso del suo calibro, dalla storia criminale unica e senza precedenti, il ravvedimento dev’essere qualcosa che va oltre l’aspetto esteriore della condotta» e visto che tale ravvedimento non può, a parere del giudice, essersi verificato così in profondità.
Ma proprio la necessità di considerare l’avvenuto recupero umano di Brusca, e non solo la sua funzionalità di pentito, dimostrerà come già prima che si pronunciasse la Corte europea dei Diritti dell’uomo, la valutazione sulla crescita del detenuto non poteva dipendere solo dalle sue dichiarazioni. E indirettamente emergerà, dunque, quanto fosse sbagliato subordinare la legittimità dell’ergastolo ostativo alla collaborazione. Persino nel caso del ferocissimo Brusca, l’eventuale ritrovata umanità deve per forza precedere l’aiuto offerto ai pubblici ministeri.
Inevitabilmente la Cassazione non potrà tenere conto del no ribadito ieri, sui domiciliari a Brusca, da Maria Falcone, sorella di Giovanni e presidente della Fondazione a lui intitolata; e neppure del «dolore a vita» con cui ha motivato il suo dissenso Tina Montinaro, vedova dell’agente Antonio, morto anche lui a Capaci. Ma le loro legittime opinioni ribadiscono che non può esserci scambio tra Stato e pentiti, e che se al collaboratore Brusca può essere concessa la scarcerazione deve essere perché si è convinti che la sua ferocia si è placata davvero.