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Quella del Mondo di mezzo non era mafia. Ed ora è una certezza irrevocabile, sancita ieri dalla Cassazione, che ha messo la parola fine al processo “Mafia capitale”, annullando senza rinvio l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. Una decisione che ha dato ragione ai giudici di primo grado, secondo cui quelle di Massimo Carminati e Salvatore Buzzi erano sì due associazioni a delinquere che hanno messo a ferro e fuoco la città con corruzione e malaffare, ma distinte e senza alcun utilizzo del metodo mafioso. La sentenza è stata pronunciata alle 20, alla presenza del presidente della Commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra, e della sindaca di Roma, Virginia Raggi - che mise piede al Campidoglio proprio dopo il terremoto politico causato dall’inchiesta - al Palazzaccio sin dal pomeriggio «a testa alta per tutti i cittadini onesti che insieme a noi combattono per la legalità e contro il malaffare» . Per alcuni reati fine e la relativa rideterminazione della pena ci sarà, ora, un nuovo processo d’appello. «Il reato di mafia è caduto per manifesta infondatezza. Finalmente c’è un giudice a Berlino», ha dichiarato Francesco Tagliaferri, difensore dell’ex Nar Carminati. «Non c’è stata mafia per il mio assistito, dovrà essere rifatto il giudizio ora - ha aggiunto ai microfoni di Rai News 24 -. Era in palio un principio di democrazia, per fortuna è stato riconosciuta la verità». Mentre per Alessandro Diddi, legale di Buzzi, «c’è un sistema corrotto ma non c’era Buzzi ad insistere con i politici per il malaffare di mezza Roma. Troppa pressione da parte di media e politica ha determinato le sentenze del passato. La vita di Buzzi, da questo momento, è cambiata, potrà guardare al suo futuro - ha aggiunto -. Ora c’è un annullamento con rinvio e dobbiamo fare dei conteggi».
A processo c’erano 32 imputati, di cui 17 condannati a vario titolo dalla Corte d'Appello di Roma, a settembre dello scorso anno, per associazione a delinquere di stampo mafioso, con l'aggravante mafiosa o, ancora, per concorso esterno. L'accusa avanzata dalla procura di Roma era quella di aver costituito una «nuova» mafia, con propaggini nel mondo degli appalti della Capitale. E mercoledì scorso la procura generale aveva ribadito quella tesi, chiedendo la sostanziale convalida della sentenza d'appello. «Possiamo dire serenamente che quando si parla di associazioni mafiose le dimensioni non contano, conta se si è usato il metodo mafioso - aveva detto in aula il procuratore generale Luigi Birritteri -. Il fatto da provare non è la violenza esterna ma il metodo mafioso, a cui si può far ricorso attraverso la blandizia, gli schieramenti di potere, l’appoggio alle campagne elettorali». Per il pg, che ha citato Giovanni Falcone durante la requisitoria, «abbiamo assistito a un’evoluzione della mafia: Cosa Nostra si è evoluta, abbiamo importato nuove mafie. Il sistema mafioso funziona e per questo viene riprodotto, usa la violenza mafiosa se necessario e il potere politico».
Ma i giudici di Cassazione hanno accolto la tesi delle difese, che sin da subito hanno provato a dimostrare che quella di Buzzi e Carminati era solo una vicenda di corruzione. «Una cosa è certa - ha dichiarato Valerio Spigarelli, difensore di Luca Gramazio, ex consigliere regionale Pdl condannato in appello per 416 bis -, la mafia in questo processo non esiste, è un’invenzione giuridica fatta a freddo». Così come avevano stabilito i giudici di primo grado il 20 luglio 2017, quando la condanna più dura venne inflitta a Carminati: 20 anni di reclusione contro i 28 anni chiesti dalla procura, ma senza aggravante mafiosa. Al “ras delle cooperative” Buzzi, invece, furono inflitti 19 anni, contro i 26 anni e 3 mesi richiesti, anche per lui senza 416 bis. «Questa sentenza dimostra che la mafia - aveva detto l’avvocato Giosuè Naso, l’allora difensore di Carminati - è una cosa seria, che non va banalizzata, perché se tutto è mafia poi finisce che nulla è mafia». Per il Tribunale, non era stata «individuata, per i due gruppi criminali», quello presso il distributore di Corso Francia e quello riguardante gli appalti pubblici, «alcuna mafiosità “derivata” da altre, precedenti o concomitanti formazioni criminose». Non basta il ricorso alla corruzione, avevano obiettato i giudici, «è invece necessaria l’adozione del metodo mafioso, inteso come esercizio della forza dell’intimidazione». In appello le cose erano invece cambiate: quella del Mondo di Mezzo, per i giudici, era mafia, sancendo così una breve rivincita della procura allora guidata da Giuseppe Pignatone. Ma le pene si erano ridotte rispetto al primo grado, con Carminati e Buzzi che si sono visti ridurre lacondanna, rispettivamente a 14 anni e mezzo e a 18 anni e 4 mesi. E assieme a loro, i giudici d’appello avevano riconosciuto l’associazione mafiosa anche per altri 16 imputati. Ora è tutto da rifare.