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Per Antonio Ingroia, oggi avvocato e un tempo tra i pm antimafia che coordinarono il procedimento penale sulla presunta trattativa “Stato-mafia”, la sentenza d’appello di Palermo è chiara: la trattativa ci fu. Ma «ambasciator non porta pena, se vogliamo sintetizzare il senso della sentenza...». Dottore, lei parla di una sentenza double face, ma ancora sappiamo solo una cosa: il comportamento degli uomini dello Stato imputati in questo processo non fu reato. Non è presto per dire che una trattativa, comunque, ci fu? Certo, bisogna leggere le motivazioni per avere un quadro chiaro. Ma ho provato a decifrare il dispositivo, che è molto articolato, perché ci sono assoluzioni con formule diverse, condanne in forma diversa, alcune confermate, altre derubricate, quindi ho cercato di prevedere quale potrebbe essere la motivazione su queste basi. È chiaro che l’assoluzione di Marcello Dell’Utri è diversa da quella degli ufficiali del Ros, la condanna di Antonino Cinà e Leoluca Bagarella per il 1992 è diversa da quella di Bagarella per il 1994. Sulla base di questo, posso dire che almeno per il ‘92 è certo che c’è stato il papello e l’avvio della trattativa. Se lo scopo dei militari era quello di catturare i latitanti non è forse più opportuno parlare di una strategia d’indagine? Non è mai stato messo in dubbio che gli uomini del Ros volessero combattere la mafia, né è stato mai sostenuto che ne fossero complici. Ma dal dispositivo non mi pare che i giudici abbiano accolto la linea difensiva, ovvero che si trattasse di una strategia investigativa. I giudici dicono che c’è stata una trattativa, che c’è stato un papello, che questo papello è passato dalle mani degli ufficiali dei carabinieri - che non hanno mai ammesso questa cosa - e che è arrivato al governo. Solo che secondo i giudici, il fatto che gli ufficiali dei carabinieri siano stati ambasciatori di questa minaccia mafiosa non costituisce reato, perché non era fatto con l’intenzione di minacciare lo Stato. Ma che questo papello sia arrivato ai vertici dello Stato è stato dimostrato dal processo? I giudici sono evidentemente convinti di questo, perché altrimenti Cinà non sarebbe stato assolutamente condannato per minaccia consumata, ma come nel caso di Bagarella nei confronti del governo Berlusconi la sua accusa sarebbe stata derubricata a minaccia tentata. Nel caso di Bagarella, la Corte d’Appello ha ritenuto che la minaccia non sia arrivata e si sia fermata nel segmento Cosa Nostra - Dell’Utri. Nel 1992, invece, dev’essere per forza arrivata, altrimenti la formula assolutoria avrebbe dovuto essere “per non aver commesso il fatto”. Durante il processo sono state depositate le audizioni dei colleghi di Borsellino davanti al Csm, dalle quali è emerso che lo stesso magistrato stimava gli uomini del Ros e soprattutto credeva nel dossier mafia-appalti. Perché non è stato adeguatamente approfondito, come chiede anche la figlia Fiammetta? Ma io credo che invece sia stato approfondito. Ovviamente, coinvolgendo la responsabilità di magistrati di Palermo, se ne occupò la procura di Caltanissetta: alcuni magistrati sono stati indagati, poi la procura ritenne che non ci fossero sufficienti elementi per fare un processo e l’indagine venne archiviata. Però c’è stata. Che Borsellino fosse interessato a quel dossier è cosa risaputa, l’ho dichiarato in tanti processi, ma non c’entra nulla con la trattativa. Anzi, sono questioni parallele. Ma in teoria fu proprio la trattativa ad accelerare l’organizzazione dell’attentato a Borsellino, sebbene per altri la sua morte sia da ricollegare proprio a quel dossier... Ma questo è un altro discorso, non riguarda il processo di Palermo. La strage di via D’Amelio non c’entra. Nel processo di Palermo non è mai entrata in maniera significativa la circostanza che Borsellino sapesse o meno della trattativa, se la stessa c’entrasse con la sua morte… Sono cose separate. Lo scopo della mafia, con questa trattativa, era quello di ottenere dei benefici. Ma l’azione repressiva dello Stato non è venuta meno: 416 bis e 41 bis sono rimasti in piedi e fu la Consulta a rivedere i parametri per il carcere duro. Quale sarebbe stata la conseguenza di questa azione? Non ebbe degli effetti immediati, sicuramente, ma che nell’arco di qualche anno le condizioni cambiarono e che il clima politico e legislativo - che dal 1992 al 1994 era particolarmente forte - si sia un po’ allentato è evidente, sfido chiunque a dire che non sia così. Dopodiché, se sia o meno effetto della trattativa è un’altra questione che non riguarda il processo, perché se poi la minaccia ebbe effetto, se vi fu veramente la trattativa è secondario rispetto al processo. Il processo riguarda una minaccia: c’è stata questa minaccia? Chi ne è stato il responsabile? Questo era l’oggetto del processo. I giudici di primo grado hanno detto che la minaccia c’è stata e che erano responsabili sia i mafiosi che l’avevano pensata sia gli uomini dello Stato che l’avevano agevolata, portandola al destinatario. I giudici d’appello hanno confermato il fatto, però hanno ritenuto che il reato era riscontrabile solo per chi ha ideato e inviato la minaccia e non chi ne è stato ambasciatore. Come dire: ambasciator non porta pena, per sintetizzare il senso della sentenza. Però secondo lei comunicare un’informazione ai vertici dello Stato è reato. Io penso che di fronte ad una palese ed evidente minaccia un ufficiale di polizia giudiziaria avesse il dovere di portare a conoscenza della magistratura un reato che si stava commettendo sotto i suoi occhi, invece di portarlo alla politica e quindi al governo. La polizia giudiziaria lavora per la magistratura e quando ha notizie di reato non le porta alla politica, ai ministri o al governo, le porta ai magistrati. Non risulta che questa cosa sia stata comunicata ad un magistrato, tranne che ciò non sia avvenuto segretamente. Ma questo possono saperlo solo gli ufficiali, che hanno sempre negato. Un altro aspetto di questo processo è il fatto che si sia trasformato in una questione di tifo: questa degenerazione non fa male alla lotta alla mafia? Questo non fa bene né alla giustizia né alla lotta alla mafia. L’enfatizzazione mediatica, la spettacolarizzazione, sia delle condanne sia delle assoluzioni, è un danno. Sono d’accordo con lei: è una battaglia contro i mulini a vento, purtroppo. Siamo entrati da anni, ormai, in un tunnel in cui qualsiasi pubblico evento viene spettacolirazzato. La politica è diventata più superficie che contenuto e purtroppo questa cosa ha contagiato anche il mondo della giustizia.