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In carcere si diventa un numero. Antonino Rizzo nei venticinque giorni di custodia cautelare è stato la matricola numero 60731. Il medico catanese racconta la sua esperienza dietro le sbarre nel libro “25 giorni”, dopo essere stato coinvolto in una inchiesta con al centro presunte truffe e falsi certificati per fare ottenere pensione di invalidità, accompagnamento e riconoscimento dei benefici della legge 104 a chi non ne aveva diritto. Il titolo del libro rievoca l’esperienza di detenuto per quasi un mese, partendo dalla “visita” dei carabinieri a casa alle prime luci dell’alba per prelevarlo e strapparlo dai suo affetti: la moglie e i figli.
“25 giorni” non è solo una testimonianza che vuole tenere accesi i riflettori sull’universo carcerario. È un diario che raccoglie sensazioni, desideri, esperienze e paure. Le paure di chi da un giorno all’altro vede stravolta la propria esistenza e quella dei propri cari, che vivono con chi viene privato della libertà personale le stesse angosce.
L’esperienza del carcere non è solo un fatto prettamente personale; è una valanga che travolge amici, familiari, vita privata e vita professionale. Occorrono nervi saldi e grande forza interiore per rialzarsi. «Sono un detenuto – scrive Rizzo -, per caso, certo, ma sempre un detenuto e quando stai dentro un carcere, per tutti, comunque, qualcosa hai certamente combinato. Anch’io spesso, colpevolmente, ho pensato così per fatti analoghi: non c’è mai la presunzione d’innocenza per un arrestato, piuttosto c’è quella di colpevolezza. E questa sensazione, che ho provato in quel momento, mi accompagnerà poi per tutta la detenzione e non potrò mai scacciarla via: per molti, tanti, troppi, non c’è mai spazio per incertezze o dubbi su un eventuale errore giudiziario».
Proprio quello che ha riguardato Antonino Rizzo. Anche nel suo caso la carcerazione preventiva e la gogna mediatica sono state due facce della stessa medaglia. «Il termine carcerazione preventiva – dice Rizzo al Dubbio -, teoricamente, dovrebbe esser stato bandito dal nostro ordinamento, poiché etimologicamente volto a conciliare due istituti tra loro incompatibili, in quanto diversi per natura e funzione: ossia la pena detentiva, il carcere, e la misura cautelare, che, per antonomasia, una pena non è e non dovrebbe mai essere, ciò in quanto la sua applicazione postula la pendenza di un processo penale, il cui esito definitivo si avrà soltanto con l’irrevocabilità della sentenza. Tuttavia, posso affermare, con assoluto rammarico e preoccupazione, che l’esperienza che mi ha visto coinvolto ha inciso sulla mia persona come, probabilmente, soltanto una pena dovrebbe fare. Come racconto nel mio libro, ho trovato strutture fatiscenti, che rendono il soggetto sottoposto a misura cautelare una sorta di animale in gabbia, dimenticato dal mondo, dimenticato dal nostro Stato. Non voglio scadere nei luoghi comuni, ma mi sono sentito come fossi meno di un numero. Mi sentivo innocente e avevo voglia di difendermi, di spiegare le mie ragioni. Nella realtà dei fatti, però, sono stato trattato come un colpevole abbandonato in una struttura che, a sua volta, è abbandonata a se stessa».
Mai il medico Rizzo, stimato ed affermato professionista catanese, avrebbe immaginato di fare un'esperienza così dolorosa. La realtà carceraria si tende sempre a tenerla lontano dalla vita quotidiana. La società tende a non pensarci e quando ciò accade cerca di rimuoverla subito da ogni ragionamento. «È stata certamente un’esperienza dura – commenta -, durissima, fatta di umiliazioni, promiscuità, fatiscenza della struttura, burocrazia asfissiante e vessatoria. Se si sopravvive al carcere, lo si fa solo grazie agli altri detenuti non allo Stato che ti ci ha scaraventato dentro. Ho conosciuto sentimenti che non avevo mai incontrato nella mia vita: solidarietà, fratellanza, sostegno e tutti senza alcun secondo fine, ma con il solo intento di aiutare gli altri, chi ha più bisogno. Una lezione di umanità che non dimenticherò mai».
Forza di volontà e desiderio di non considerare l’esperienza carceraria, seppur molto limitata nel tempo, una parentesi da appallottolare e gettare nel cestino dei ricordi. Per Antonino Rizzo i venticinque giorni con altri detenuti sono stati l’occasione per far conoscere, attraverso le pagine di un diario, intimo e al tempo stesso rivolto all’opinione pubblica, la vita senza la libertà. «Il mio libro – aggiunge - l’ho scritto in carcere, a penna, su fogli di carta raccattati quando ero in isolamento e poi su un quadernone acquistato con il sopravvitto. Ho graffiato quei fogli con tutta la rabbia e la disperazione che avevo e che potevo, ho cercato di metterci dentro tutta quella tempesta di emozioni che mi esplodeva dentro. E sono uscito certamente migliore di quello che ero non certo per la lezione che hanno tentato forse di darmi, ma per aver conosciuto un’umanità che non sapevo neanche che esistesse».
Pagine scritte con l’intento di non dimenticare un’esperienza personale e l’umanità insperata, che si cela dietro mura massicce e gelide sbarre.