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La Procura aveva negato il suo coinvolgimento sei anni fa, definendolo un errore di interpretazione. Ma a distanza di 11 anni dall’inizio di quella indagine, Armando Veneto, decano delle Camere Penali, quello che per tutti è semplicemente «il maestro», è finito di nuovo nel mirino della Dda di Catanzaro. Con un’accusa pesantissima: corruzione aggravata e concorso esterno. Nelle sue mani ci sono solo 11 pagine, quelle che documentano l’avviso di conclusione delle indagini, con il quale la Dda lo ha formalmente informato che presto bisognerà finire davanti al gup che dovrà decidere se mandarlo a processo. Assieme a lui ci sono altre sei persone: Domenico Bellocco, alias “Micu u Longu”, Vincenzo Puntoriero, Gregorio Puntoriero, Vincenzo Albanese, Giuseppe Consiglio e Rosario Marcellino. La settima, quella che di questa storia rappresenta il centro, non c’è più. Si tratta di Giancarlo Giusti, l’ex giudice condannato per aver intrattenuto rapporti con la ‘ndrangheta ed essersi fatto corrompere per aiutarla, scarcerando i vertici del clan Bellocco, decapitato dagli arresti dell’antimafia di Reggio Calabria. Giusti si è suicidato nel 2015, a pochi giorni della conferma in Cassazione della condanna per quei suoi rapporti proibiti. Un gesto maturato, spiegò allora il suo legale, Giuseppe Femia, proprio a seguito della riapertura dell'inchiesta sulla scarcerazione dei tre esponenti della cosca Bellocco che ora vede coinvolto anche Veneto. Una storia iniziata nel 2009 e rimasta in un cassetto per anni, fino a quando, nel 2014, i sette indagati non ricevettero un avviso di garanzia. In quell’elenco, però, il nome del penalista non c’era. L’accusa sosteneva - allora come oggi - che quelle tre scarcerazioni erano state acquistate al prezzo di 120mila euro. Un “abbraccio” - questo il nome dell’inchiesta - tra ‘ndrangheta e istituzioni, che, secondo l’antimafia avrebbe stritolato anche Veneto, che di quell’affare sarebbe stato «l’intermediario». Lui in questa storia ci entra con un tempismo perfetto, sostituendo un collega nella difesa di uno dei presunti corruttori, proprio nel periodo in cui secondo l’accusa la corruzione stessa si consumava: agosto 2009. «Solo ora capisco compiutamente cosa significhi trovarsi da innocente in un processo penale in Italia», ha dichiarato il penalista ed ex europarlamentare dopo aver ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini. Secondo la Dda, Giusti, all’epoca dei fatti componente del collegio del Tribunale del Riesame di Reggio Calabria quale giudice relatore ed estensore, nell’udienza del 27 agosto 2009 aveva disposto l’annullamento delle ordinanze cautelari emesse a carico di Rocco e Domenico Bellocco e Rocco Gaetano Gallo, «ai vertici della cosca Bellocco» in cambio di 40mila euro a testa. E in questo gioco corruttivo Veneto avrebbe svolto dunque un’attività di «intermediazione» rispetto ai tre «corruttori», assieme ai Puntoriero, secondo l’antimafia «per agevolare le attività della cosca», garantendo la libertà ai suoi elementi di spicco. Tutto si basava su alcune intercettazioni, pescate nel corso di un’altra indagine a carico della potente cosca di Rosarno. E da quelle era emersa la figura di un “avvocato”, inizialmente identificato dalla procura proprio con Veneto, che difendeva i Bellocco davanti al Tdl di cui Giusti faceva parte. «Mi ero distaccato dalla vicenda, quando l’allora procuratore della Repubblica di Catanzaro era apparso su tutti i quotidiani spiegando che l’avvocato in questione non ero io», ha sottolineato il penalista. L’allora procuratore era Vincenzo Lombardo, che diresse le indagini assieme all'aggiunto Giuseppe Borrelli e al sostituto Vincenzo Luberto (ora indagato per corruzione aggravata dal metodo mafioso). E dopo aver ipotizzato inizialmente il coinvolgimento di Veneto, tornò sui propri passi, identificando il mediatore in Domenico Punturiero: era a lui, secondo gli inquirenti, che ci si rivolgeva con l’appellativo “avvocato”. In quella scarcerazione, spiegò allora Lombardo, Veneto non avrebbe avuto alcun ruolo. E tutto sembrò finire lì. Fino al primo giugno scorso, 11 anni dopo, quando il suo nome è riapparso nell’inchiesta ora diretta dal procuratore Nicola Gratteri, dall’aggiunto Vincenzo Capomolla e dal sostituto Elio Romano. Per capire perché toccherà attendere oggi, giorno in cui Veneto, finalmente, avrà in mano tutte le carte di questa vicenda. Per lui, nel frattempo, è arrivata la solidarietà dell’avvocatura. Una notizia «sconcertante», afferma la Giunta dell’Unione delle camere penali, che lo definisce una «autentica bandiera dell’avvocatura italiana», chiedendosi «cosa abbia indotto il medesimo Ufficio di Procura a rimettere mano - senza nemmeno avvertire l’esigenza di ascoltarlo - a fatti di oltre dieci anni fa». Perplessità condivisa dalle Camere penali calabresi, secondo cui Veneto rappresenta un «monumento» e un «esempio di lotta per l'affermazione dei principi del giusto processo e del diritto di difesa», mentre l’Osservatorio “Doppio binario e giusto processo”, fondato dallo stesso penalista «per denunciare le storture dei processi di criminalità organizzata rispetto al giusto processo, tra le quali la dilatazione delle indagini che spesso diventano permanenti ed infinite, con la sottrazione delle regole al controllo dei tempi», ha sottolineato come di questa «prassi distorta» proprio Veneto sia «rimasto vittima». La sua storia personale e professionale, conclude la nota, «la sua specchiata condotta e dirittura morale sono talmente solide da non poter essere scalfite e messe in discussione, agli occhi di tutti i giuristi (accademia e magistratura compresa) e cittadini che lo hanno conosciuto».