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«Il consenso sociale non è il fine dei magistrati». Il monito è del procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone ed è arrivato sabato scorso in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario. «Il pm decide sulla base delle prove acquisite - ha infatti ricordato Pignatone - senza preoccuparsi delle critiche che potrebbe ricevere. deve saper condurre le indagini a 360 gradi senza pregiudizi e senza fermarsi alle apparenze, sottoponendo tutto a un esame critico». Insomma, parole decise che peraltro arrivano da un procuratore che ha sul tavolo il fascicolo Consip: uno dei casi politico- mediatici più delicati degli ultimi anni.
D’altra parte le parole di Pignatone arrivano dopo quelle di Giovanni Mammone. Nel suo primo discorso, il primo presidente della Cassazione aveva infatti ricordato ai magistrati che «il vivere sociale impone ai magistrati precisi obblighi deontologici di misura e moderatezza, necessari per preservare la loro immagine di terzietà, non solo nell’ambito istituzionale, ma anche nella vita privata e nei rapporti con i mezzi di comunicazione» . Ma alcuni procuratori hanno invece puntato il dito contro il degrado “morale” della classe dirigenti dovuto a una sostanziale impunità.
A cominciare da Roberto Scarpinato, Procuratore generale ai Palermo, che parla di vero e proprio collasso etico delle élite: «E’ sempre più alto il numero di persone coinvolte in reati di corruzione e concussione che svolgono ruoli apicali, ad esempio in ministeri, in assessorati della Regione o Comuni e Asl. La serialità delle condotte criminose, la vastità delle relazioni di complicità, ricompongono il quadro di un collasso etico e di una deriva criminale di segmenti rilevanti della classe dirigente». E poi: «Anche in questo settore la giustizia penale non riesce ad assolvere al compito di prevenzione - ha aggiunto ancora Scarpinato Le politiche legislative hanno alimentato la crescita di una cultura impunitaria».
E sulla scia delle parole di Scarpinato sembra porsi anche Luigi Riello, procuratore generale della Corte d’Appello di Napoli, che auspuca una vera e propria “rivolta delle coscienze”: «Occorre una ribellione morale come a Palermo dopo le stragi di mafia per ottenere una vera reazione civile che può sorreggere l’azione dello Stato», ha detto Riello, che poi ha aggiunto: «Qui non c’è nulla di tutto ciò se non qualche corteo, poi silenzio, anzi un muro di omertà. Chiediamo ad altri pezzi dello Stato di non lasciare soli noi magistrati: noi perseguiamo specifiche responsabilità individuali e non i fenomeni. Il nostro sistema punitivo per certi versi indulgente, non sortisce effetti dissuasivi».
E lo spettro mafioso appare anche nelle parole Matteo Frasca, presidente della Corte d’appello di Palermo: «Sarebbero sufficienti un paio di anni di minore attenzione dello Stato per consentire all’associazione mafiosa di ripristinare l’inaudita forza criminale manifestata sino agli anni 90, con la consapevolezza che non sarebbe, in tal caso, possibile escludere una nuova stagione di inaudita violenza».
E nelle parole dei magistrati chiamati a inaugurare l’anno giudiziario non poteva mancare l’eterno tema delle intercettazioni. Decisamente scettico il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi: «La riforma delle intercettazioni rischia di non risolvere il problema da cui si dice sia nata ma al contempo creerà enormi difficoltà interpretative e applicative. Ciò che è veramente necessario – ha spiegato – è che ci si dia il tempo di assorbire, digerire, metabolizzare il profluvio di riforme che ci ha investito in questi ultimi tempi. Il Parlamento è attualmente sciolto, dopo le nuove elezioni si vedrà chi ci governerà e quale sarà la nuova composizione del Parlamento. ma già ora si sente parlare in diversi programmi di riforma della giustizia. Quale ulteriore ennesima riforma? Fosse solo la separazione delle carriere sarei quasi contento: tanto quella di fatto esiste già e si fa finta di non vederla. – ha proseguito – Ciò di cui abbiamo bisogno è invece l’esatto opposto. Abbiamo bisogno di un congruo periodo di “fermo biologico” in materia di riforme della giustizia o del processo». E sul tema delle intercettazioni è intervenuto anche Francesco Saluzzo, procuratore generale di Torino, che ha voluto ristabilire il primato dei magistrati: «Le intercettazioni servono, servono eccome, ed è evidente che qualcosa andava fatto sul piano della diffusione e sul piano della violazione del segreto. Unico punto che mi lascia perplesso riguarda quella sorta di appalto agli ufficiali di polizia giudiziaria nell’attività di selezione preventiva delle conversazioni da ritenere irrilevanti, estranee, private. L’intercettazione e un atto di indagine del pubblico ministero, egli ha la responsabilità di quel che si fa o quel che non si fa e di come si fa». E un voce fuori dal coro, arriva da Edoardo Barelli Innocenti, della Corte d’Appello di Torini: «Serve una decisa depenalizzazione - ha detto - perché la sanzione penale sia riservata ai casi più gravi di violazione della legge, con pene anche non necessariamente pesanti ma rapide, effettive, a breve distanza dal reato commesso».