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Luna ha trascorso cinque anni in carcere. E il suo racconto non è solo una cronaca di eventi, ma una riflessione profonda sulla solitudine, la sofferenza e la speranza che si può trovare anche nei luoghi più bui. Come il carcere, dove spesso si è sentita invisibile e privata dei propri diritti, ma dove ha imparato tanto sul valore dell’umanità e della solidarietà.
Luna, quando sei entrata in carcere per la prima volta? E cosa ti ha spinto a finire in quella situazione?
La prima volta che sono entrata in carcere è stato nel 2008, per tre settimane, dei quali 15 giorni in cella da sola, e poi due settimane di arresti domiciliari. Ma ci sono tornata nel 2010 a seguito di un blitz per traffico di stupefacenti. Quando sono entrata in carcere io ero già iscritta al Sert di Ferrara, prendevo 90 ml di metadone. Tuttavia, in realtà non lo bevevo, lo vendevo. In carcere mi hanno dato la stessa dose giornalmente, che per me era eccessiva, così ho cercato di ridurla. Gli infermieri, i medici e gli psicologi, però, erano contrari. Ho insistito finché sono arrivata a 10 ml, ma quando ho cercato di dimettermi dal Sert interno è stato complicato: non volevano che lo facessi, temevano ricadute. Alla fine, ci sono riuscita dopo un anno di riduzione progressiva. Ero tossicodipendente da anni, e la prigione non è un luogo dove affronti davvero il tuo problema con le sostanze. Ti rinchiudono, ma dentro non succede nulla. All’inizio pensavo che potesse essere un’opportunità per fermarmi, per affrontare finalmente la mia dipendenza, ma il sistema non ti offre le risorse necessarie.
Qual è stata la tua esperienza con il sistema sanitario dentro il carcere? Hai ricevuto l’assistenza che ti aspettavi?
No, assolutamente. L’assistenza sanitaria è una delle cose che mi ha colpito di più in modo negativo. Io, per esempio, in cinque anni non ho mai visto uno psicologo o uno psichiatra. Inoltre, mancano ginecologi per la prevenzione e la diagnosi di patologie come i tumori. Gli screening preventivi non vengono fatti e se una detenuta ha bisogno di una visita specialistica, i tempi di attesa possono superare i sei mesi. A me sarebbe servita una terapia psicologica, eppure non c’era niente. In carcere, sembra che la salute delle donne non sia una priorità. Una volta mi sono dovuta sottoporre a una visita ginecologica che ho dovuto chiedere più volte, non era affatto scontato che me la facessero. Le donne che sono lì hanno bisogno di un’attenzione particolare, ma sono trattate come invisibili. Ti guardano solo come una detenuta, come un numero. E basta. Le altre, che come me avevano dipendenze, erano lasciate completamente da sole, senza supporto. Anche l'igiene è un problema, sia per gli spazi inadeguati sia per i prodotti a disposizione. Per esempio, gli assorbenti forniti gratuitamente sono molto spessi e scomodi. Per avere assorbenti normali bisogna comprarli attraverso il “modello 72”, il sistema di spesa interno al carcere, ma non tutte le detenute hanno i soldi per farlo. Fortunatamente, tra di noi c'era solidarietà: chi poteva, aiutava chi era in difficoltà, condividendo cibo e beni di prima necessità.
In che carcere ti trovavi?
Ero alla Dozza di Bologna. La struttura era divisa in due sezioni: una per le detenute in attesa di giudizio e una per le condannate in via definitiva. All'inizio le celle ospitavano tre persone, ma dopo la sentenza Torreggiani è stato tolto il terzo letto, anche se, in caso di sovraffollamento, lo avrebbero rimesso. L'unico aspetto positivo era la presenza della doccia in cella, cosa rara nelle carceri italiane. In molte altre strutture, infatti, le detenute devono lavarsi in spazi comuni con orari prestabiliti.
Che tipo di rapporto hai avuto con le altre detenute? C’era solidarietà tra di voi?
In carcere la solidarietà è l’unica cosa che ci tiene in vita. Se non c’è quella, diventi un animale. La prigione ti porta a un livello di umanità minima, ma spesso, tra noi, abbiamo cercato di darci quel supporto che le autorità non ci offrivano. Spesso c’erano scambi di aiuto reciproco: una prestava un po’ di soldi, l’altra una parola di conforto. Non c’era molto altro. In quel luogo, tra donne, ci siamo strette molto. Ci sono stati momenti di grande affetto e complicità. Ti aiuti a vicenda come puoi, anche con gesti piccoli, che però sono enormi in un posto dove la solitudine è totale. Non ho assistito a suicidi, ma ci sono stati tentativi, spesso legati al dolore per la perdita di una persona cara e all'impossibilità di ottenere un permesso per il funerale. Ricordo una ragazza a cui venne negato il permesso per l'ultimo saluto al padre: tentò di togliersi la vita per la disperazione.
C’è stato un momento particolarmente difficile che ricordi? Una situazione che ti ha segnata profondamente?
Ci sono stati tanti momenti che mi hanno segnata. Ma uno che ricordo in modo particolare è quando una delle mie compagne di cella ha avuto un malore. In prigione, i malori spesso non vengono presi sul serio, eppure lei stava davvero male. Non si è mai riusciti a darle l’assistenza che le sarebbe servita. Alla fine, è stata trasferita in ospedale, dove le hanno dato una notizia terribile: aveva un tumore in stadio avanzato. Per fortuna è riuscita a curarsi in tempo, ma poteva andare peggio. Questo episodio mi ha fatto capire quanto siamo invisibili lì dentro. Siamo tante donne che, se non riceviamo attenzione, rischiamo di morire senza che nessuno se ne accorga.
E riguardo alle guardie penitenziarie, come è stato il tuo rapporto con loro?
Ci sono stati episodi di violenza, verbale e fisica. Un giorno, ricordo, una guardia ha picchiato una ragazza senza alcun motivo. Abbiamo solo sentito le urla e quello che la ragazza ci ha raccontato perché ci hanno chiuso tutti gli spioncini dei blindi. Lei era una persona fragile, ma per loro eravamo tutte uguali, come se non avessimo diritti. Non c’era nessun rispetto per la nostra dignità. Un’altra volta eravamo in saletta e tra due detenute c'era stato un problema riguardante la spesa e la situazione era diventata un po’ caotica. Siamo state richiamate dalla sovrintendente io e la mia coincellina, ma in ufficio erano presenti anche l'ispettore e fuori dall'ufficio quattro o cinque agenti della squadretta. La mia coincellina, che assumeva metadone, è stata insultata dall’ispettore che le ha dato della “bestia”. A quel punto, ho risposto dicendo che la bestia era lui. Poi abbiamo notato che gli agenti si stavano infilando i guanti neri, e ci siamo autoblindate in cella. Dopo quell’episodio, mi hanno dato 15 giorni di isolamento. Un’altra volta, eravamo in cella con una compagna e ci abbracciavamo. Un gesto affettuoso, nulla di strano. Ma lo stesso ispettore e la stessa squadra sono intervenuti e l’altra ragazza è stata trasferita in un altro istituto. È stato un momento di rabbia, di frustrazione. Volevo solo difendere una forma di umanità, di affetto. Ma in carcere, anche un gesto innocente diventa motivo di ritorsione. E a proposito di condizioni generali, devo aggiungere che in carcere le celle sono un vero e proprio incubo. C’è sempre la muffa, l’umidità è costante, soprattutto perché le finestre non si chiudono bene e d’inverno entra sempre l’aria gelida. Questo è accaduto sia durante il mio periodo di detenzione, tra il 2010 e il 2015, sia nel 2023, quando ho sentito che a causa della caldaia unica non riuscivano nemmeno a garantire l’acqua calda per tutti. Erano situazioni comuni, che rendevano la vita ancora più difficile, in un posto già di per sé opprimente.
Come ti sei sentita rispetto alla mancanza di legami esterni? Hai mantenuto contatti con la tua famiglia durante la detenzione?
La mia famiglia mi ha sostenuto, ed è stato fondamentale per me. Ma non tutte le detenute avevano lo stesso privilegio. C’erano donne che non ricevevano nemmeno una lettera. Il fatto che non avessero nessuno fuori le rendeva completamente invisibili, senza nessun appiglio. Questo è un aspetto che mi ha colpito molto. Un’altra donna, che non aveva mai avuto nemmeno una visita, dopo aver ricevuto il rifiuto per poter partecipare al funerale del padre, ha tentato il suicidio. È stato devastante. L’isolamento è stato uno dei fattori più difficili da sopportare. L’idea che, in quel momento, avessi il sostegno della mia famiglia è stata un’ancora di salvezza. Ma è triste pensare che per molte donne non c’è nemmeno quella.
Qual è la tua opinione sul sistema carcerario e su come vengono trattate le detenute? Cosa pensi dovrebbe cambiare?
Il sistema carcerario, specialmente per le donne, è lontano dalla realtà. Le donne che arrivano in carcere hanno storie difficili, problemi di salute, dipendenze, traumi. Il carcere dovrebbe essere un luogo di recupero, ma la realtà è che diventa solo un luogo di punizione. Le detenute, soprattutto quelle che hanno bisogno di aiuto per la tossicodipendenza o per il disagio psicologico, vengono trattate come numeri, come se il loro recupero fosse una questione secondaria. Eppure, io penso che il cambiamento debba partire proprio da questo: dare spazio a percorsi di recupero veri. Ci sono donne in carcere che hanno bisogno di un supporto concreto, ma spesso questo manca.
Dopo tutto quello che hai vissuto, come vedi il futuro? Che cosa ti ha insegnato questa esperienza?
Ora sono attivista dell'associazione Yairaiha, che si occupa della tutela dei diritti umani, in particolare di quelli delle persone private della libertà personale. L’esperienza in carcere mi ha segnato, ma mi ha anche fatto conoscere persone con cui ho stretto amicizie profonde, che proseguono ancora oggi. Inoltre mi ha messo davanti alle mie fragilità, ma anche alla mia forza. Mi ha insegnato che, nonostante tutto, la solidarietà è l’unico legame che non può essere spezzato. Siamo persone, e quando ce lo ricordiamo l’una con l’altra, possiamo fare delle cose incredibili. Ho imparato anche che la sofferenza può essere superata, ma solo con l’aiuto reciproco. Il carcere mi ha fatto vedere le cose da una prospettiva diversa e oggi cerco di dare il mio supporto a chi ne ha bisogno, soprattutto a chi vive ancora quella realtà. Mi ha insegnato che, anche quando la vita sembra impossibile, ci può sempre essere qualcuno che ti tende la mano.
Cosa speri per le donne che sono ancora in carcere?
Spero che finalmente qualcuno capisca che sono donne, non solo detenute. Hanno diritto a essere trattate con dignità, ad avere accesso a cure mediche, a supporto psicologico. Hanno diritto a un percorso di recupero che le aiuti a rientrare nella società. Non devono essere dimenticate. Penso che il cambiamento deve partire dal riconoscimento di questi diritti. Perché dietro le sbarre ci sono delle vite, delle persone che possono ancora trovare un cammino diverso, se solo ricevono l’aiuto giusto.