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«Privare qualcuno della libertà vuol dire in ogni caso infliggere un doloroso supplizio. Se poi si scopre che questo atto era del tutto privo di fondamento o di motivazione, l’ingiustizia diventa un trauma insuperabile, inaccettabile. Per questo ritengo doveroso ridurre il ricorso alla custodia cautelare preventiva, che, sebbene non vi sia coscienza nell’opinione pubblica della sua incredibile diffusione, è tuttora praticata, spesso senza un’effettiva necessità». È quanto scrive Matteo Renzi in uno dei capitoli del suo nuovo libro "La mossa del cavallo", in uscita il 4 giugno per Marsilio. «Tutte le volte che il tribunale del riesame o la Cassazione annullano un’ordinanza d’arresto non soltanto viene deturpato il principio stesso dello Stato di diritto, ma rimane irrimediabilmente sfregiata la vita delle persone, di chi è stato ingiustamente privato della sua libertà e il cui percorso appare segnato da una macchia indelebile. In uno Stato liberale è quanto di più grave possa darsi», afferma l’ex premier. «Questo significa che può capitare a tutti, che non è affatto giustificato ciò che, nell’intimo delle nostre coscienze, al sicuro nelle nostre case, continuiamo a ripeterci: "Io non ho fatto niente e dunque nulla ho da temere", oppure, mettendo in campo la spietata consequenzialità della logica: "Se l’hanno arrestato, qualcosa avrà fatto". Un modo di pensare miope, sebbene comprensibile e quasi scontato, ma, se riflettiamo bene, profondamente iniquo», sottolinea Renzi. «E del resto non è un caso che nel corso di una trasmissione televisiva al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sia significativamente sfuggita la frase: "Gli innocenti non finiscono in carcere". Che cos’è infatti quell’esternazione se non la spia di un sentimento diffuso?», aggiunge. «A preoccupare molto di più, però, è la scarsa cultura giuridica diffusa in questo paese, in cui è come se non esistesse, o fosse stato rimosso, il principio di non colpevolezza sancito dalla Costituzione nel momento in cui questa legittima la condanna solo dopo una sentenza passata in giudicato - sottolinea il leader di Italia Viva -. E invece ogni cittadino diventa, suo malgrado, un colpevole non ancora scoperto, come teorizzato per anni da Pier Camillo Davigo, magistrato capofila di una cultura giustizialista approdata prima al vertice dell’Associazione nazionale magistrati e poi persino al Consiglio superiore della magistratura. Ma non stupisce più di tanto, se si pensa che lo stesso Csm aveva accolto uno dei giudici responsabili di quello che, a ragione, viene incluso nella lista dei più clamorosi scandali giudiziari che l’Italia ricordi, il caso Tortora - aggiunge -. Basti questo a confermare come un tale atteggiamento sia un problema strutturale della giustizia italiana, che non può essere risolto se non attraverso una lunga e sistematica battaglia culturale». «Se, da un lato, il magistrato è un essere umano, e come tale può commettere errori - spiega ancora -, dall’altro è inaccettabile che possa essere promosso al più alto organo di autogoverno della magistratura dopo essersi reso responsabile di una vicenda tanto delicata da essere rimasta scolpita nella memoria collettiva del paese. Ecco perché oggi appare indispensabile lavorare perché si giunga a una definitiva presa di coscienza del problema, prima ancora che per cambiare la legge».