GIORGIO LATTANZI

A quel testo ha lavorato personalmente: è stato il coordinatore della commissione che lo ha messo a punto. Una fatica lunga sette anni, per quella che merita certo di essere ricordata come una trasformazione epocale, per il nostro ordinamento. Gli si è affidato un ministro come Giuliano Vassalli, a sua volta passato alla storia ma di certo riconoscente a uomini che, insieme con lui, hanno scritto le regole del nuovo processo.

Da due giorni Giorgio Lattanzi è presidente della Corte costituzionale. Ha raccolto il testimone da Paolo Grossi. La sua è stata un’elezione con 12 voti favorevoli e una scheda bianca: c’è da giurare che fosse la sua. Lo hanno votato tutti gli altri giudici della Consulta ( tranne uno, Giuliano Amato, costretto a disertare perché impegnato all’estero). A 79 anni, è un coronamento che non sorprende. È il premio a un giurista, magistrato, legislatore nel senso più concreto del termine, che si dedica alla civiltà del diritto da più di mezzo secolo.

Prima si è detto dell’invisibilità di chi scrive davvero le leggi. Che, come nel caso di Lattanzi, lavora più di tutti e non dà interviste. Eppure il nuovo vertice della Consulta ha trovato, senza cercarla, una visibilità meritata e inevitabile. Gli avvocati, i magistrati, i giuristi hanno ben presente il segno che la sesta sezione della Suprema corte ha lasciato nella giurisprudenza penale durante la fase della sua presidenza.

Un solco garantista, scandito nelle sentenze, che non si è interrotto neppure quando il magistrato è arrivato alla Consulta. È del 2016 la pronuncia costituzionale che ha recepito in Italia il principio del “ne bis in idem” così come lo ha inteso la Corte europea dei diritti dell’uomo. Fino alla sentenza firmata da Lattanzi, il diritto italiano assumeva l’impossibilità che una persona fosse giudicata due volte per lo stesso reato.

Adesso, grazie al giurista che ora guida la stessa Consulta, anche in Italia non è possibile essere giudicati più di una volta per lo stesso fatto anche se si tratta di reati diversi. Un evento può segnare la vita di una persona una volta soltanto, almeno sul piano processuale.

Il garantismo insomma ha trovato la sua strada per affermarsi in una delle più alte cariche? Forse è così. È la logica con cui va letto questo passaggio. Si tratta di una consacrazione per una carriera e per un principio. Che quella carriera. peraltro, si è impegnata ad affermare. Non solo con la riforma del Codice di rito: a cui d’altronde il contributo di Lattanzi è stato prezioso anche perché segnato forse dalla più grande fatica, quella di coordinare i diversi tavoli di lavoro in cui fu strutturata la commissione presieduta da Giandomenico Pisapia. Ha portato a sintesi un percorso corale che, per dimensione, ha pochi altri esempi nella storia della Repubblica.

A Lattanzi si devono anche altre importanti riforme, molte delle quali riconducibili al cosiddetto pacchetto Flick, altro guardasigilli che si è affidato a lui: nel periodo in cui il suo predecessore al vertice della Consulta era ministro della Giustizia, Lattanzi è stato, come direttore degli Affari penali di via Arenula, padre delle norme sul giudice unico, sulla competenza penale del giudice di pace e sulla responsabilità delle imprese, solo per citarne alcune.

Non solo, perché ha guidato la delegazione italiana al Comitato Ue per la Giustizia e gli Affari interni e, in questa veste, ha avuto un ruolo decisivo nelle trattative condotte con gli Usa affinché Silvia Baraldini potesse scontare in Italia la propria condanna, come poi avvenne. «La controparte statunitense apprezzò sinceramente la qualità del suo contributo tecnico», raccontano oggi coloro che lavorarono con lui Oltreoceano alla difficile negoziazione.

Sia negli anni al ministero che in quelli, successivi da presidente di sezione alla Suprema corte, Lattanzi non ha smesso di essere un protagonista anche nel dibattito scientifico: e il suo segno è anche qui, nella sua attività di direttore di “Cassazione penale”, rivista rigorosa ma attenta a ogni sforzo possibile per segnalare le vie garantiste della giurisprudenza. Viene fatto notare come il suo nome sia una rarità, nella netta prevalenza di civilisti passati negli ultimi anni dalla Cassazione alla Consulta, e come anche questo non sia un caso. Ma è bastato ascoltare il suo intervento al G7 dell’avvocatura promosso dal Consiglio nazionale forense italiano, lo scorso 14 settembre a Roma, per cogliere, anche da profani, la cifra di questo giurista.

Non si è rifugiato nella solennità dell’istituzione che è venuto a rappresentare – della Corte costituzionale era, in quel momento, vicepresidente vicario. Ha ricordato con parole chiare che «i nuovi mezzi di comunicazione hanno una potenzialità offensiva a cui è difficile porre riparo: quando si pubblicano notizie false o si diffondono parole che costituiscono vere e proprie aggressioni a delle persone, chi ne viene colpito ne è vittima impotente.

La verità non riesce ad avere la stessa diffusione e la notizia rimane su internet: così si annulla il diritto all’oblio». Risuona, in queste affermazioni, un’altra verità, quella del procedimento penale in cui le indagini sono mainstream mentre il dibattimento, in cui spesso le accuse schiaccianti sbattute in prima pagina si dissolvono nel nulla, è oscurato. È quel pezzo di riforma che Lattanzi ha contribuito a scrivere e che la nostra società del diritto ancora non riesce ad attuare. Ma che forse, con un presidente così alla Corte costituzionale, sarà un po’ più difficile tradire ancora.