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di pietro
La memoria, ricostruita col senno di poi, rischia di fare brutti scherzi. Quando il 17 febbraio 1992 Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, fu arrestato a Milano da un pm anomalo, un ex poliziotto venuto dal basso, colorito e pittoresco, tal Antonio Di Pietro, i giornali attribuirono alla notizia moderata attenzione. Non era un titolo d'apertura. Una grana per il Psi di Craxi certamente sì. Ma nulla di più. Nessuno avrebbe scommesso su uno scandalo di prima grandezza, figurarsi su una slavina tale da travolgere l'intero sistema.Lo scontro tra poteri dello Stato, tra politica e magistratura, durava già da anni, con picchi di tensione anche molto alti. Ma il Paese assisteva senza prendere parte con tifo davvero acceso. Il discredito della classe politica dilagava, questo sì, ma senza che la sfiducia diffusa si fosse tradotta in delega alla magistratura. L'Italia era già un Paese solcato da una profondissima vena antipolitica ma non ancora giustizialista. Però ci voleva poco perché il discredito della politica si traducesse in affidamento totale al potere togato e in sete di galera. Sarebbe bastata una pioggia sostenuta: arrivò il diluvio. Tangentopoli, coniugata con l'emozione sincera e unanime provocata dalle stragi mafiose di Capaci e via D'Amelio, trasformò in pochi mesi i magistrati in eroi popolari, cavalieri senza macchia. Quello che era stato, e in larghissima misura ancora era, scontro tra poteri dello Stato divenne per quasi tutti l'epopea del bene contro il male.La politica si arrese e forse non poteva fare altro. Ci sono due episodi precisi che segnano quella disfatta. Il 5 marzo 1993 il ministro della Giustizia Giovanni Conso, uno dei più insigni giuristi italiani, varò un decreto che depenalizzava, con valenza retroattiva, il reato di finanziamento illecito ai partiti. I magistrati di Mani pulite e soprattutto l'intero coro dei grandi media insorsero. Per la prima volta nella storia il capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, rifiutò di firmare un decreto, facendolo decadere. Meno di due mesi dopo, il 29 aprile, la Camera negò, probabilmente in seguito a una manovra leghista coperta dal voto segreto, l'autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi, segretario del Psi assurto a simbolo stesso della corruzione. La sera dopo una folla inferocita contestò il leader socialista di fronte alla sua residenza romana, l'Hotel Raphael, a colpi di sputi e monetine.I due episodi delineano il quadro esauriente in modo esauriente: una furia popolare che s'identificava senza esitazioni con la magistratura, uno schieramento dei media quasi unanime e militante a sostegno dei togati, una debolezza della politica strutturale e irrimediabile, un potere dello Stato, la magistratura, in grado di presentarsi come ultimo baluardo, unico a godere di credibilità e fiducia. La parabola del giustizialismo, destinata a durare decenni, cominciò allora. I mesi seguenti furono una mattanza: la classe politica fu falcidiata tutta. Non mancarono suicidi eccellentissimi, come quelli di Gabriele Cagliari, ex presidente Eni, e Raul Gardini, presidente del gruppo Ferruzzi-Montedison, il 20 e il 23 luglio.Ma già nel 1994 la situazione appariva molto diversa. Abbattuta la prima Repubblica, con Berlusconi trionfante in nome non della continuità ma al contrario della rottura col passato in nome della “rivoluzione liberale”, sembrò per qualche mese che fossero in campo due poteri di pari forza. Berlusconi, uomo alieno da tentazioni belliche, provò subito a risolvere a modo suo: assorbendo le toghe nel nuovo sistema di potere. Offrì a Di Pietro e D'Ambrosio, due magistrati di punta di Mani Pulite, posti da ministri. Rifiutarono e fu subito chiaro che lo showdown era solo questione di tempo.Anche in questo caso due date bastano a restituire l'intera vicenda. Il 13 luglio 1993 il ministro della Giustizia del governo Berlusconi varò un decreto che limitava fortemente l'uso della custodia cautelare, strumento principe delle inchieste sulla corruzione ma effettivamente più abusato che usato. I magistrati di Mani pulite contrattaccarono, chiesero in diretta tv il trasferimento. I partiti che sostenevano il governo, Lega e An, si schierarono contro il dl, che fu ritirato. Poi il 21 novembre, arrivò l'invito a comparire per Berlusconi, anticipato dal Corriere della Sera prima che il diretto interessato fosse messo al corrente. Il governo cadde meno di due mesi dopo.Per registrare tutte le battaglie e le scaramucce, gli agguati e gli scontri frontali dei decenni successivi ci vorrebbe un'enciclopedia. Nel mirino delle inchieste finirono a valanghe, incluso l'emblema stesso di Mani pulite, Antonio Di Pietro. Un paio di governi furono travolti. Il solo tentativo serio di riformare la Costituzione, la bicamerale presieduta da Massimo D'Alema fallì per il pollice verso del potere togato, che si oppose all'allargamento della riforma anche al dettato sulla giustizia.Nel nuovo secolo quella spinta popolare e populista che vedeva nei magistrati i suoi campioni e nel carcere la panacea, trovò, come era forse inevitabile una rappresentanza politica, il M5S e arrivò, come era invece forse evitabile, a vincere le elezioni del 2018. E' possibile che quell'apparente trionfo sia destinato a passare alla storia come l'avvio del tramonto. Il fallimento del M5S e la sua progressiva “normalizzazione”, gli scandali che hanno demolito, con il caso Palamara, la credibilità della magistratura, l'avvio di riforme in controtendenza rispetto alla temperie giustizialista, infine alcune sentenze clamorose, come quella sulla trattativa segnano forse la fine di una fase durata una trentina d'anni. Non è escluso che la secca dichiarazione del vero leader dei 5S, Di Maio, sull'esito del processo che ha smantellato l'intera visione della storia italiana del Movimento, quello sulla trattativa, “Le sentenze si rispettano”, sia la campana a morto per la lunga festa del giustizialismo italiano.