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Depositate mercoledì scorso le motivazioni della sentenza con cui la Consulta ha "promosso" il blocco della prescrizione durante il lockdown
La sospensione della prescrizione, disposta dai decreti legge 18 e 23 del 2020, emanati per contrastare l’emergenza coronavirus, “non è costituzionalmente illegittima”. È quanto ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza estesa dal relatore Giovanni Amoroso e di cui mercoledì scorso sono state depositate le motivazioni. Una pronuncia che, seppur considerata “circoscrivibile” all’emerfenza, modifica in modo rilevante la giurisprudenza sul punto.
Consulta: “blocco covid” rientra fra cause generali di sospensione della prescrizione
La sospensione dei processi dal 9 marzo all’ 11 maggio del 2020 era stata prevista per fronteggiare l’emergenza sanitaria nel primo lockdown. La cosiddetta “sospensione covid”, per la Consulta, rientra dunque nella causa generale di sospensione della prescrizione stabilita dall’articolo 159 del codice penale, secondo cui “il corso della prescrizione” rimane sospeso “ogni qualvolta la sospensione del procedimento o del processo penale sia imposta da una particolare disposizione di legge”. Pertanto, il blocco introdotto la scorsa primavera “non contrasta con il principio costituzionale di irretroattività della legge penale più sfavorevole”.
La Corte costituzionale ha dichiarato in parte “non fondate” e in parte “inammissibili” le questioni che erano state sollevate dai Tribunali di Siena, di Spoleto e di Roma sulla applicabilità della sospensione della prescrizione anche ai processi per reati commessi prima dell’entrata in vigore dei due Dl. In particolare, dichiarando “la non fondatezza delle questioni con riferimento al principio di legalità sancito dall’articolo 25 della Costituzione”, e “l’inammissibilità con riferimento ai parametri europei richiamati dall’articolo 117, primo comma, della Costituzione”.
La sentenza precisa che “il principio di legalità richiede che l’autore del reato non solo debba essere posto in grado di conoscere in anticipo quale sia la condotta penalmente sanzionata e la pena irrogabile”, ma “deve avere anche previa consapevolezza della disciplina concernente la dimensione temporale in cui sarà possibile l’accertamento del processo, con carattere di definitività, della sua responsabilità penale, ossia la durata del tempo di prescrizione, anche se ciò non comporta la precisa determinazione del ‘dies ad quem’ in cui maturerà la prescrizione”.
In tema di sospensione della prescrizione, “l’articolo 159 del codice penale ha una funzione di cerniera, perché contiene da un lato una causa generale di sospensione, che scatta quando la sospensione del procedimento o del processo è imposta da una particolare disposizione di legge; e dall’altro lato, un elenco di casi particolari”.
Secondo la Corte resta intatto “l’equilibrio dei valori in gioco”
Nelle vicende da cui sono nate le questioni portate all’esame della Consulta, opera proprio tale causa generale di sospensione. Secondo la Corte, “la temporanea stasi ex lege del procedimento o del processo determina, in via generale, una parentesi del decorso del tempo della prescrizione, le cui conseguenze investono tutte le parti: la pubblica accusa, la persona offesa costituita parte civile e l’imputato. Così come l’azione penale e la pretesa risarcitoria hanno un temporaneo arresto, per tutelare l’equilibrio dei valori in gioco è sospeso anche il termine per l’indagato o per l’imputato”.
La breve durata della sospensione dei processi e quindi del decorso della prescrizione è, inoltre, “pienamente compatibile con il canone della ragionevole durata del processo” e “sul piano della ragionevolezza e della proporzionalità, la norma è giustificata dalla tutela del bene della salute collettiva per contenere il rischio di contagio da coronavirus, in un momento di eccezionale emergenza sanitaria”, si legge infine nella sentenza.
I giudici rimettenti avevano richiamato il “divieto assoluto” già sancito dalla Corte
Secondo i magistrati che, invece, avevano sollevato la questione di costituzionalità, in plurime occasioni, la Consulta aveva già in precedenza affermato la natura sostanziale dell’istituto della prescrizione.
In particolare, citando la sentenza Cedu “Taricco”, la Corte nel 2017 aveva stabilito che “nell’ordinamento giuridico nazionale il regime legale della prescrizione è soggetto al principio di legalità in materia penale, espresso dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione”, con tutti i corollari in punto di legalità, tassatività e divieto di retroattività dei trattamenti sfavorevoli.
Pertanto il regime legale della prescrizione doveva essere “analiticamente descritto, al pari del reato e della pena, da una norma che vige al tempo di commissione del fatto”. I magistrati, nel loro atto alla Consulta, avevano anche ricordato che - sempre nella giurisprudenza costituzionale - si potevano leggere esplicite affermazioni per cui “il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole non può soffrire eccezioni”.
Secondo quanto affermato in precedenza dalla Corte, il principio di legalità in materia penale esprime un principio supremo dell’ordinamento, “posto a presidio dei diritti inviolabili dell'individuo, per la parte in cui esige che le norme penali non abbiano in nessun caso portata retroattiva”. I “principi supremi” espressi dalla Costituzione italiana non possono tollerare deroghe o eccezioni e non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale poiché essi “appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”.
Di diverso avviso, la sentenza depositata mercoledì scorso.