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«Sulla separazione delle carriere ci sono criticità che a me sembrano non superabili. Creare un corpo di pubblici ministeri separato da tutto è probabilmente più pericoloso dell’attuale assetto». La frase tra virgolette è stata pronunciata il 29 aprile scorso, poco più di un mese fa, da Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Una frase con la quale il numero uno del sindacato delle toghe ha ribadito la linea del no alla separazione delle carriere, considerata addirittura pericolosa, in quanto la conseguenza che ne deriverebbe sarebbe quella della dipendenza del pm dal potere politico. «È proprio necessario allontanarlo dalla giurisdizione, recidere quel legame di formazione comune e di condivisione di percorsi professionali, pur nella già accentuata separazione delle funzioni, che allo stato definiscono la cornice entro la quale il pubblico ministero può alimentarsi di una cultura delle garanzie?», aveva dichiarato in un’intervista al Riformista. Per le toghe, d’altronde, è sciocco auspicare una divisione, perché l’indipendenza di inquirenti e giudicanti sarebbe garantita già oggi, senza bisogno di sconvolgere alcunché. Ne è certa, ad esempio, la procuratrice di Verbania, Olimpia Bossi, che ha preso come esempio la decisione della gip Donatella Banci Buonamici - che ha smontato l’impianto accusatorio formulato dalla procura nelle indagini sulla tragedia di Stresa-Mottarone - per ribadire che, nonostante la vicinanza («prendevamo sempre il caffè insieme»), ognuno riesce a fare il proprio lavoro con il dovuto distacco. Eppure proprio questo caso ha dimostrato il contrario: non solo grazie al commento della stessa Bossi, che ha deciso di cambiare abitudini rimandando quel quotidiano caffè ad un domani non meglio specificato, come se le decisioni di un giudice contrarie alle posizioni di un pm fossero da considerare una sorta di sgarbo, ma anche grazie alla reazione dell’Anm. È lo stesso sindacato delle toghe, infatti, ad usare due pesi e due misure, difendendo a spada tratta i magistrati che hanno formulato le accuse dai presunti attacchi dei penalisti, accusati di voler esercitare indebite pressioni sulla procura (anzi, sulle procure in generale), solo per aver affermato che quel fermo è stato eseguito in maniera illegittima. Parole considerate un attacco e, dunque, respinte come una minaccia. Ma la stessa giunta piemontese dell’Anm, che si è espressa dopo il provvedimento del gip, non ha tenuto in considerazione proprio quanto detto dal giudice, che non la sua decisione ha sconfessato il lavoro di quelle toghe, peraltro confermando le osservazioni ritenute “indebite” degli avvocati. «Il fermo è stato eseguito al di fuori dai casi previsti dalla legge», ha scritto Banci Buonamici, di fatto ribadendo quanto già detto dagli avvocati, che pure non erano entrati nel merito della questione. La domanda, formulata anche dalla Camera penale del Piemonte orientale, è d’obbligo: l’Anm non rappresenta, forse, anche i giudici? E perché la difesa d’ufficio è scontata per quei giudici che condannano o confermano le misure cautelari (aderendo alla tesi del pm) e per gli stessi organi inquirenti e non lo è per chi decide, con la stessa autonomia e indipendenza, di sconfessare le tesi dell’accusa? Il legame, allora, è già reciso. E l’Anm, ad oggi, appare proprio essere il sindacato dei soli pm. In caso contrario batta un colpo.