PHOTO
Durante le indagini sulla trattativa Stato- mafia non abbiamo avuto nessuna tutela da parte del Csm e dell’Anm. Nelle scelte degli incarichi direttivi dei magistrati privilegiare il criterio dell’appartenenza a una corrente è molto simile al metodo mafioso. Abbiamo toccato il fondo ( dopo la vicenda Palamara, ndr), dobbiamo invertire noi la rotta prima che qualcuno, approfittando della situazione, faccia una riforma che sottoponga la magistratura al controllo da parte del potere politico. Questo, in estrema sintesi, il “Nino Di Matteo pensiero” illustrato durante l’ultima puntata di “Non è l’arena” su La7.
Una chiusura con il botto per il programma di Massimo Giletti che ha avuto come ospite d’onore l’ex pm antimafia e ora consigliere del Csm eletto come indipendente nella corrente di Piercamillo Davigo. L’intervento di Di Matteo si è aperto sulla madre di tutti i procedimenti dell’ultimo ventennio: il processo sulla trattativa che attualmente è in corso davanti la Corte d’assise d’Appello di Palermo. «Quando partì questa indagine molti pensavano che fosse frutto di una costruzione, di un teorema politico di magistrati un po’ fantasiosi. Nel tempo si resero conto che l’indagine si riferiva a fatti concreti», ha esordito Di Matteo. «Noi - ha aggiunto - abbiamo avuto difficoltà di tutti tipi, non potevamo non prevederle perché la nostra indagine si indirizzava non solo nei confronti dell’alta mafia ma anche nei confronti di appartenenti di alto livello dell’Arma dei carabinieri, a funzionari di polizia, a politici». E poi l’affondo finale: «C’è stato un momento in cui dopo la vicenda delle intercettazioni di alcune telefonate fra Nicola Mancino con il presidente Napolitano, a noi è stato detto di tutto, siamo stati definiti ricattatori del Capo dello Stato, eversori: in quel momento Anm e Csm, anziché difendere non Nino Di Matteo ma l’operato dei magistrati che indagavano, hanno preferito per motivi di opportunità schierarsi dalla parte del potere politico». Dopo essersi tolto questo “sassolino” dalle scarpe, Di Matteo è tornato sull’attualità e sull’esclusione, prima di essere eletto al Csm, dal pool “mandanti esterni sulle stragi” della Dna per aver raccontato durante una trasmissione televisiva alcuni dettagli di queste vicende giudiziarie. Su questo particolare è intervenuto telefonicamente il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafieho de Raho: «Io volevo reintrodurlo nel gruppo ma volevo la certezza che da quel momento in poi non vi sarebbero state fughe in avanti».
E infine, una nuova stoccata, dopo quella dello scorso anno, sulle correnti della magistratura: «Io dissi, e lo direi ancora, che privilegiare nelle scelte che riguardano la carriera di un magistrato il criterio dell’appartenenza a una corrente è molto simile al metodo mafioso. La valutazione del lavoro di un magistrato o le nomine fatte per incarichi direttivi nei confronti di un magistrato condizionati dal criterio dell’appartenenza sono assolutamente inaccettabili». Nessuna replica al riguardo è giunta, fino alla serata di ieri, da parte del Csm e dell’Anm. Tornado all’Anm, è prevista per questa settimana la decisione del Comitato direttivo centrale su Luca Palamara e sui magistrati che parteciparono al dopo cena dell’anno scorso all’hotel Champagne. I probiviri hanno deciso per la loro espulsione. Alcune toghe, per evitare quest’onta, hanno preferito dimettersi prima dall’associazione. Il direttivo, scaduto a marzo, è alla seconda proroga. Presidente del collegio dei probiviri, rimasti in quattro per le dimissioni che hanno falcidiato l’Anm, è il pm Bruno Di Marco che, all’epoca, è stato il difensore per altre vicende, davanti alla sezione disciplinare del Csm, di Giancarlo Longo, il magistrato che raccontò di aver saputo che Palamara aveva ricevuto 40mila euro per la sua nomina a procuratore di Gela. Circostanza smentita dagli inquirenti di Perugia.