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Nino Di Matteo è una figura atipica. In senso assoluto. Non solo come magistrato, anche se la sua diversità si staglia con più nettezza proprio nel campo dell’associazionismo giudiziario. In un intervento alla festa del Fatto quotidiano in Versilia ha detto di essersi candidato al Csm non perché gli interessi stare nel giro della rappresentanza associativa ma perché dopo il caso Palamara ha sentito la necessità di «difendere l’autonomia e l’indipendenza» delle toghe, insidiata da quell’uragano. Nello stesso tempo ha suggerito nuove priorità al nascente governo: innanzitutto «la lotta alla mafia» e la ricerca della verità sullo stragismo mafioso, «sparite» dall’agenda politica. Tutte affermazioni che possono far storcere il naso. Eppure, nella sua atipicità, Di Matteo non è tacciabile di scarsa coerenza.Riguardo la candidatura alle suppletive per il Csm, in programma il 6 e 7 ottobre prossimi, gli avversari potranno eccepire che il sostituto procuratore nazionale Antimafia si definisce autonomo nonostante sia sostenuto esplicitamente da “Autonomia e indipendenza”, la corrente di Davigo. Di più. Gli ricorderanno, probabilmente, il suo impegno di presidente dell’Anm palermitana, assunto nel 2012 e reso possibile, all’epoca, dal sostegno di Unicost. In realtà la candidatura attuale e l’investitura pregressa si spiegano davvero con una capacità insolita di ottenere il sostegno organizzato dei colleghi senza condividerne strutturalmente la strategia. In effetti oggi come allora, Di Matteo viene scelto, anziché essere vincolato da una propria scelta politica. Sulla richiesta di dare più spazio, nell’azione del governo, ai temi a lui cari, c’è una indiscutibile invasione di campo. E questo è un connotato caratteristico della sua atipicità. Ma non è un fatto nuovo. Sono anni che Di Matteo bordeggia la politica propriamente detta senza mai fare rotta verso i partiti. Si può discutere una linea del genere, senz’altro. Ma il tratto politicista in realtà spiega in pieno la singolare natura del suo impegno associativo. Di Matteo si candida al Csm, così come si propose per la guida dell’Anm palermitana, non perché si senta a suo agio tra le correnti dei magistrati, non perché ambisca a partecipare dei complicati equilibri nella geografia delle nomine, da ultimo rivelatesi nei loro rischi degenerativi. Lo fa perché è sempre trascinato da quella forza che lo spinge a darsi alla politica vera e propria, solo che si ostina a cederle senza dismettere la toga. È un caso degno dell’irritazione di chi osteggia storicamente la “politicizzazione” dei magistrati. Ma in realtà Di Matteo costringe anche a riflettere sui modi diversi di intendere il fenomeno. Può non trattarsi solo dell’ambizione di influenzare gli equilibri tra i partiti, indagare sulla sinistra per favorire la destra o viceversa. Può anche trattarsi, come nel caso di Nino Di Matteo, della pretesa di assecondare un orizzonte ideale più ampio, rispetto all’antipatia per Berlusconi o Renzi, e di cercare nell’associazionismo giudiziario solo una sponda per rappresentarlo. Sarà sbagliata pure questa seconda pretesa. Ma almeno ci costringe a riflettere su quale voragine si sia aperta nelle idee dei partiti, tanto da spingere magistrati come Di Matteo a cercare l’ibridazione fra la toga e la leadership politica. Oltre a storcere il naso per l’anomalia, forse la politica stessa dovrebbe impegnarsi di più a colmare, da sola, quel vuoto.