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Se non è uno scherzo del destino poco ci manca. Proprio nel giorno in cui nacque Mani Pulite, uno dei membri del pool che cambiò le sorti della politica italiana, Piercamillo Davigo, è stato rinviato a giudizio. E l’annuncio è arrivato proprio mentre si trovava impegnato in un convegno a Pisa, in occasione del trentennale di Tangentopoli. L’accusa è di rivelazione del segreto d’ufficio, per aver diffuso i verbali nei quali l’ex avvocato esterno dell’Eni, Piero Amara, raccontava dell’esistenza di una fantomatica loggia denominata “Ungheria”, capace di condizionare le nomine dei palazzi più importanti e della quale farebbero parte pezzi grossi delle istituzioni, magistrati compresi. Verbali che gli erano stati consegnati dal pm milanese Paolo Storari, che aveva deciso di tutelarsi dal presunto immobilismo dei vertici della procura di Milano nel procedere alle iscrizioni dei primi indagati. Per Storari, che ha scelto la strada del rito abbreviato, il pm ha chiesto una condanna a sei mesi, il minimo della pena. Sul pm milanese, sul quale pende anche una richiesta di trasferimento per incompatibilità ambientale davanti al Csm, il gup Francesca Brugnara si pronuncerà il 7 marzo. Ma intanto, la decisione di ieri stabilisce una prima valutazione di merito sulla portata delle accuse, la cui consistenza dovrà essere valutata in un processo, che prenderà il via il prossimo 20 aprile davanti alla prima sezione penale del tribunale di Brescia. A porte aperte, proprio come voleva l’ex consigliere del Csm. «Il dottor Davigo, anche per mio tramite, si difenderà fortemente», ha affermato l’avvocato Francesco Borasi al termine dell’udienza, dopo aver sottolineato, in aula, le «contraddizioni» a suo dire emerse dal capo d’imputazione scritto dai pm Donato Greco e Francesco Milanesi. Secondo Borasi, fa «sorridere l’ipotesi di commettere il reato di rivelazione di segreto d’ufficio» confrontandosi su un’inchiesta con il vicepresidente del Csm David Ermini, al quale Davigo aveva mostrato i verbali di Amara. Ma come ammesso dallo stesso ex pm, di quei verbali sono diversi i soggetti che hanno avuto notizia. Secondo i magistrati di Brescia, Davigo avrebbe violato «i doveri inerenti alle proprie funzioni» abusando «della sua qualità di componente del Csm», pur avendo «l’obbligo giuridico ed istituzionale» di impedire «l’ulteriore diffusione» dei verbali. Dei quali «rivelava il contenuto a terzi», consegnandoli senza alcuna «ragione ufficiale» al consigliere del Csm Giuseppe Marra, con lo scopo «di motivare la rottura dei propri rapporti personali con il consigliere Sebastiano Ardita», indicato da Amara tra i componenti della loggia. Ma non solo: l’ex pm ne parlò anche ad un’altra consigliera del Csm, Ilaria Pepe, per «suggerirle “di prendere le distanze”» da Ardita e invitandola a leggerli; con il consigliere Giuseppe Cascini, al quale Davigo ha chiesto «un giudizio sull’attendibilità» di Amara, mentre ai consiglieri Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna avrebbe riferito di una «indagine segreta su una presunta loggia massonica, aggiungendo che “in questa indagine è coinvolto Sebastiano Ardita”». Inoltre, ad essere informati furono anche un componente esterno al Csm, Nicola Morra, presidente della Commissione nazionale antimafia, per chiarire i motivi dei «contrasti insorti tra lui» e Ardita, e le due segretarie di Davigo, Marcella Contrafatto – che secondo la procura di Roma avrebbe spedito anonimamente quei verbali al consigliere del Csm Nino Di Matteo e alla stampa – e Giulia Befera. Proprio per tali motivazioni, Ardita è stato ammesso come parte civile al processo. Secondo il suo legale, Fabio Repici, Davigo avrebbe agito con «dolo», con il fine «di screditare il ruolo istituzionale di consigliere del Csm» di Ardita «e la sua immagine personale e professionale», attraverso «una pervicace operazione mirata di discredito, cercando così perfino di condizionarne il ruolo di consigliere del Csm e addirittura arrivando a condizionare l’intero Csm». Per Borasi, però, l’ex pm avrebbe «agito secondo la legge». Concetto che Davigo ha ribadito anche nel corso delle precedenti udienze. «Io non credo di aver sbagliato - ha affermato - perché nessuno si è sognato di dirmi: “Guarda che non potevi fare quello che dovevi fare”, ma fosse anche che mi fossi sbagliato sono scriminato dall’adempimento di un dovere perché avevo il dovere di denunciare la notizia di reato al Procuratore generale e avevo il dovere di informare il Consiglio superiore della magistratura». L’ex pm aspettava dunque «indicazioni», anche perché fare una relazione di servizio, ha spiegato, avrebbe significato far conoscere a tutti la situazione, comprese le persone indicate da Amara nel verbale. Fu l’ex pm di Mani Pulite a convincere Storari che la consegna di quel materiale era legittima. Tant’è, ha sostenuto l’ex magistrato, che «non mi capacito (…) come Storari sia qui. Storari si è fidato di un componente del Csm, ma che cosa deve fare un magistrato di fronte a un comportamento che reputa illegale dei suoi superiori se non parlare con l’Organo di autogoverno?». Stesso concetto espresso dall’avvocato Paolo Dalla Sala, secondo cui Storari avrebbe tenuto una «condotta legittima». La consegna dei verbali, infatti, è avvenuta solo dopo aver ricevuto da «un importante esponente del Consiglio superiore della magistratura» la conferma della correttezza del suo gesto, per altro «compatibile» con le circolari dello stesso Csm. Gesto che «poi ha trovato il suo avallo nei comportamenti di altre persone» che siedono a Palazzo dei Marescialli e delle quali «nessuna ha sollevato obiezioni formali» al modo in cui è stata chiesta tutela.