Potrebbe sembrare un mero esercizio Di stile, un sofisma linguistico destinato a rimanere “lettera morta”, ma il fatto di cambiare nome alla carica di “Commissario straordinario per l'edilizia penitenziaria” in “Commissario straordinario per l’architettura penitenziaria”, è un gesto ben più sostanziale di quanto possa apparire di primo acchito.

L’idea è nata dal convegno che Cnf, Fai e Dubbio hanno organizzato a Perugia lo scorso 8 marzo. Un'iniziativa dedicata a carcere e donne ma dalla quale è nata anche la proposta, accolta da buona parte della politica presente quel giorno: da Maria Elena Boschi, Debora Serracchiani oltre a Maria Stella Gelmini e Susanna Donatella Campione. Insomma, mentre il carcere vive una delle sue stagioni più drammatiche - sovraffollamento record e suicidi che colpiscono detenuti e agenti di polizia penitenziaria - l’idea di cambiare nome a una struttura destinata a costruire nuove carceri, potrebbe risultare decisiva per cambiare approccio e paradigma.

Decisiva, certo, ma anche “legale”, perché la detenzione non può non muovere dalla nostra Costituzione, dall’articolo 27, naturalmente, lì dove afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. E una rieducazione in strutture pensate solo come forme di contenimento è impossibile. E qui vengono in soccorso le decine di studi che da decenni dimostrano quanto un ambiente carcerario che non sia solo coercitivo abbatta la reiterazione dei reati creando comunità più sicure. Insomma, un vantaggio per chi è dentro ma anche per chi è fuori.

D’altra parte architetti e neuropsichiatri confermano che la progettazione di nuove carceri non può diventare mera costruzione di container contenitivi.

«E’ dimostrato scientificamente che vivere in luoghi estremi varia la funzionalità e l’anatomia del cervello umano», spiega Federica Sanchez, ricercatrice in neuroscienze applicate all’architettura presso la società Lombardini 22”. «Parliamo di ambiente estremo quando una o più caratteristiche spaziali vengono fortemente ripetute, esasperate o ridotte, mi riferisco alla luce o alla mancanza di luce, alla profondità visiva disponibile, i colori, le forme, la prossemica, la distanza del corpo dalle pareti. Sono stati condotti diversi studi sulle conseguenze neurofisiologiche e psicologiche subite dai membri di spedizioni nello spazio, in Antartide e nelle attività di esplorazione sotterranea, allo stesso modo esistono evidenze sugli effetti della prigione. L’ambiente architettonico e quello sociale sono aspetti fondamentali per il benessere mentale delle persone, nell’universo carcerario la salute viene danneggiata per diverse ragioni: l’allontanamento della persona dalla società, la mancanza di scopi e significato della vita, le condizioni spaziali estreme come il sovraffollamento, l’isolamento, l’esposizione alla violenza».

Insomma, l’isolamento può addirittura modificare la struttura anatomica e le funzionalità del cervello. «Uno dei casi più noti è quello di Robert King - spiega ancora Sanchez - un ex detenuto statunitense che ha trascorso 29 anni in un cella di isolamento. Una volta uscito di prigione King ha accusato la perdita delle proprie capacità di orientamento spaziale e di coscienza del proprio posizionamento tridimensionale nello spazio. Il caso ha interessato la neuroscienziata Huda Akil la quale ha ipotizzato che l’isolamento protratto abbia innescato modifiche anatomiche nel cervello di King, in particolare nella zona dell’ippocampo che è un’area fondamentale per la memoria, per il riconoscimento spaziale. La mancanza di relazioni sociali può trasformare l’anatomia del cervello e ridurre la massa di alcune regioni critiche per il pensiero e il controllo delle emozioni e alterare la connettività tra amigdala e lobi frontali a cui si associa un aumento dei disturbi del comportamento ».

Idea per la quale da anni si batte l’Architetto Cesare Burdese: «L’edilizia ha orizzonti assai limitati, mentre l’architettura è portatrice di valori e contributi superiori, che, in maniera olistica, investono l’esistenza dell’individuo che utilizza l’edifico e dell’intera comunità sociale. Già in passato, l’architetto Sergio Lenci sosteneva la necessità di portare nelle facoltà di Architettura lo studio del carcere, dove ancora oggi, salvo rarissime eccezioni, è scarsamente considerato». E ancora: «I nostri istituti sono  architettonicamente informati secondo logiche securitarie, con soluzioni che sconfinano nell’afflittività, a scapito della funzione rieducativa della pena». Insomma, un cambio di paradigma che necessario per far tornare il carcere nella Costituzione...