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Il punto è l’equilibrio. Sempre. Anche nell’applicazione della legge sull’equo compenso. E l’equilibrio richiede buonsenso, certo, anche da parte del professionista, del suo Ordine, dell’intero sistema ordinistico. Ma con il buonsenso, serve un altro elemento: la rinuncia all’astuzia. Rinuncia che è scelta in capo ai “committenti”. Anche alle pubbliche amministrazioni.Ora, a guardare la teoria delle pronunce che da inizio 2018 a oggi sono intervenute sull’equo compenso professionale, si scorge appunto da parte dei giudici un doppio registro. Uno tende a scoraggiare proprio il vizio dell’astuzia. L’altro mette in chiaro la necessità di un’ulteriore precisazione normativa. A farlo è in particolare la decisione ( la numero 3015/ 2019) assunta lo scorso 30 settembre dal Tar del Lazio. È la pronuncia se si vuole meno ampia e organica, dal punto di vista dello spettro applicativo, eppure più rumorosa. È intervenuta a dirimere la questione del bando a zero euro pubblicato a febbraio 2018 dal Mef. E ha detto che sì, in assenza di una «prefissata frequenza ed entità dell’eventuale prestazione», prevale il principio per cui il professionista ricaverebbe dall’incarico, anche gratuito, ottenuto dal committente pubblico, una gratificazione virtuale, curricolare, che potrà spendere in altre forme. SENTENZE UTILI ANCHE SE SFAVOREVOLI Pronuncia contestata dalle rappresentanze professionali. Eppure in sé capace di trasmettere un’ulteriore allerta al legislatore: va precisato il passaggio della disciplina sull’equo compenso in cui la pubblica amministrazione, al momento, «garantisce il principio» della decorosa retribuzione. Espressione vaga. Interpretabile, appunto. Che non può bastare - nello specifico versante degli incarichi legali, e professionali in genere, conferiti dal soggetto pubblico - a chiarire gli obblighi nei confronti del prestatore d’opera intellettuale.Ecco perché è giusto parlare di “pressing” della magistratura nei confronti del legislatore. Si potrebbe dire che proprio la giurisdizione, in particolare quella amministrativa, ha affiancato le istituzioni che nei due anni trascorsi dall’entrata in vigore dell’equo compenso più si sono impegnate per consolidarne l’efficacia. Tra tali player, va annoverato innanzitutto il Consiglio nazionale forense. Non potrebbe essere altrimenti. CNF, ORLANDO E ALTRI PADRI DELLA LEGGE La massima istituzione dell’avvocatura è in realtà il soggetto politico da cui ha preso le mosse l’intero processo legislativo. Ne è quanto meno uno dei due pilastri. L’altro va individuato in un ministro della Giustizia, Andrea Orlando, oggi numero due del Partito democratico. Fu l’allora guardasigilli a istituire a via Arenula un tavolo con il Cnf per definire i contenuti di una disciplina sull’equo compenso. Impianto nato dunque per superare lo stato di subordinazionein cui da anni versava innanzitutto la professione forense quanto meno nei confronti dei committenti forti, ossia banche, assicurazioni e grandi imprese. Poi altri protagonisti della scena politica, nell’esame del decreto fiscale e della legge di Bilancio per il 2018, hanno svolto una funzione altrettanto rilevante. Tra loro Maria Elena Boschi, oggi capogruppo di Italia viva alla Camera, all’epoca ministra ai Rapporti col Parlamento. Da lei si proietta una linea di continuità che arriva fino al ministro della Giustizia attuale, Alfonso Bonafede. Attivo nel precisare i contenuti di una nuova legge che rafforzi l’equo compenso. Innanzitutto nei rapporti fra professionisti e pubblica amministrazione. L TAR MARCHE E I MERITI DEI COMMERCIALISTI Ma tra i player non si può trascurare l’enorme lavoro e i grandi meriti acquisiti sul campo dal Consiglio nazionale dei Dottori commercialisti e degli Esperti contabili. E tale categoria ad aver promosso, e vinto, il ricorso forse più importante attivato negli ultimi due anni sull’equo compenso. La sentenza è la 761/ 2019 emessa dal Tar delle Marche. Ad agire sono stati gli Ordini dei commercialisti di Ancona, Pesaro e Urbino. Controparte, la Provincia di Macerata. Oggetto della controversia non un bando a zero euro come quello del Mef, ma un annuncio per l’acquisizione di candidature a nell’organo sindacale di una società, la Task srl, a controllo pubblico. Tra le condizioni un compenso annuo di 2mila euro. Secondo gli Ordini ricorrenti, avrebbe dovuto invece essere calibrato sul minimo ricavabile dall’applicazione dei parametri previsti per la categoria, resi a loro volta non derogabili proprio con la disciplina dell’equo compenso. Ne sarebbe cioè dovuta derivare una retribuzione complessiva di 7.256,92 euro: più del triplo. Il collegio presieduto da Sergio Conti e composto inoltre dai giudici Gianluca Morri e Simona De Mattia ( estensore) ha chiarito che i parametri per la determinazione di un compenso «equo», che per il giudice assumono «valore orientativo», fanno riferimento «ai singoli decreti ministeriali per ciascuna categoria di professionisti». E tali decreti, certo, non vanno considerati alla stregua di minimi tariffari inderogabili, ma comunque come «un criterio orientativo per la determinazione del compenso». E quando il cliente è un contraente forte - come in questo caso è considerata la Provincia di Macerata - «la pattuizione del compenso professionale incontra il limite del rispetto del principio dell'equo compenso». Ecco il valore dell’equilibrio. I giudici non reintroducono le tariffe. Dicono però che i parametri esistono, che la legge sull’equo compenso impone anche alla pubblica amministrazione di considerarli, e che nel farlo basta ispirarsi, come detto all’inizio, al buonsenso. Non c’è una barriera aritmetica, ma va considerato un margine di ragionevolezza. A INIZIO 2018 “MONITO” DALLA CASSAZIONE È chiaro che persino la sentenza del Tar Marche fa da argine ai tentativi di aggirare la normativa attuale. Deve afferrare il soggetto pubblico per i capelli e sollecitarlo a non esercitare l’astuzia. Ma lo snodo mostra anche quanto sia necessario precisare l’ineludibilità, per il soggetto pubblico, di quel «principio» asserito dalla legge di fine 2017. È vero, d’altra parte, che una pubblica amministrazione corretta e scrupolosa avrebbe potuto adeguarsi da sola. Lo dimostrano altre pronunce chiave. Una che può essere considerata la “matrice”, prima di tutto. Si tratta dell’ordinanza depositata il 17 gennaio 2018 con cui la secondasezione civile della Cassazione ha spiegato, in relazione al compenso da riconoscere a un legale vittorioso in una causa col ministero della Giustizia, come l’amministrazione non potesse aggrapparsi al decreto 140 del 2012 ( dove i parametri sono definiti non vincolanti), e come si dovesse applicare, nella liquidazione giudiziale, il decreto 55/ 2014 sui parametri forensi, «il quale detta i criteri ai quali il giudice si deve attenere nel regolare le spese di causa». Se pure dunque la legge del 2017 individua un «principio», applicarlo in modo elusivo conduce a un contrasto giudiziale da risolversi necessariamente, nel caso degli avvocati, con l’obbedienza alle soglie del decreto 55. Avrebbe dovuto assumersi quale monito dissuasivo per l’amministratore che volesse sfidare la pazienza del professionista, in particolare dell’avvocato. DAL TAR CAMPANIA AL CASO CATANZARO E invece pochi mesi dopo, il 25 ottobre, il Tar Campania si è trovato a dover censurare il Comune di Marano per aver non solo ignorato i parametri ma, in modo esplicito, anche altri profili della legge sull’equo compenso, che vieta di pretendere dal difensore «prestazioni aggiuntive a titolo esclusivamente gratuito». Così il sindaco del caso aveva tentato di fare con un bando dell’agosto 2018, secondo cui le cause tributarie sotto i 500 euro di valore avrebbero dovuto considerarsi una sorta di corvée gratuita. Si è visto sconfitto da un ricorso firmato da qualcosa come 106 iscritti all’Ordine forense di Napoli.La legge dunque è uno scudo efficace. Il tentativo di ignorarla può costare caro alla Pa. Non sempre però. Lo dimostra la tormentata storia della causa fra il Comune di Catanzaro e un ingegnere che, con la sentenza 1507/ 18 del Tar Calabria, era riuscito ad affermare il principio secondo cui il compenso non poteva limitarsi a un pur ampio rimborso spese, ma che poi si è trovato a soccombere dinanzi al Consiglio di Stato ( sezione sesta, sentenza n. 4178 del 9 luglio 2018), secondo cui «l’affidatario può ricavare altri vantaggi economicamente apprezzabili», da quel genere di incarico.È la tesi del compenso trasfigurato in «possibilità» di «far valere» l’incarico «all’interno del proprio curriculum vitae», privilegiata dal Tar del Lazio ( sentenza 3015/ 2019) nell’ormai famigerato bando gratuito del Mef. Caso estremo, in cui il giudice ha ritenuto che la legge dell’equo compenso debba applicarsi «laddove il compenso in denaro sia stabilito». Visto che nell’avviso di via XX Settembre ci si fermava a zero, la normativa del 2017 resterebbe muta. Ecco: al di là di ogni altra valutazione, anche quello dei giudici capitolini è un modo per dire che non può essere il giudice a offrire il prolungamento di una disciplina. E che il legislatore non può attendere oltre.