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«Per il componente togato (del Csm, ndr) l’appartenenza all’ordine giudiziario costituisce un presupposto intrinseco e indefettibile della costituzione e del funzionamento dell’organismo consiliare, che ne caratterizza la funzione di garanzia. Perciò quel presupposto non solo deve sussistere al momento in cui l’organo si forma, ma deve permanere anche per tutta la durata della carica del consigliere togato». Con queste parole la seconda sezione civile del Tribunale di Roma ha respinto il ricorso dell’ex consigliere Csm Piercamillo Davigo che, dopo essersi rivolto al giudice amministrativo per ottenere l'annullamento della delibera con la quale il Csm ha dichiarato la sua decadenza da consigliere, a seguito del suo pensionamento per raggiunti limiti di età, aveva tentato la strada del giudice ordinario.
La sentenza firmata dal giudice Francesco Oddi è chiara: nessuna delle motivazioni addotte da Davigo, che aveva tentato anche di sollevare la questione di legittimità costituzionale degli articoli 30,32, 37 e 39 della legge 195/ 1958 (“Norme sulla Costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura”), è meritevole di accoglimento.
Secondo il giudice, l’articolo 104, sesto comma, della Costituzione non stabilisce, come sostenuto da Davigo, che la durata di quattro anni prevista dalla Costituzione riguardi la carica del singolo componente del Csm, bensì la stessa delimitazione temporale si riferisce alla durata in carica del Consiglio nel suo complesso. «L’opposta lettura - afferma il giudice - non è compatibile con altre norme della Costituzione riguardanti organi collegiali e, per altro verso, condurrebbe a conseguenze tanto errate quanto paradossali». La Costituzione, infatti, fissa espressamente la durata della carica quando la stessa riguarda il singolo componente dell’organo, come nel caso dei giudici della Corte costituzionale, che rimangono in carica nove anni dal giorno del giuramento.
Ma soprattutto, se così non fosse, sarebbero illegittime le disposizioni della legge 195/ 1958, laddove prevedono cause di decadenza e di incompatibilità sopravvenuta. «È intrinseco nel sistema elettivo - continua la sentenza che il verificarsi di eventi che privano l’eletto dei requisiti tecnici e morali necessari per rivestire l’incarico ne determinano la cessazione prima della sua naturale scadenza». Inoltre, in caso di subentro, il nuovo consigliere dovrebbe rimanere in carica, secondo questa ratio, oltre la fine della consiliatura, «il che è un’inammissibile aberrazione interpretativa», ammonisce il giudice.
Ma non solo: «Nel disegno costituzionale - continua la sentenza - i componenti togati sono magistrati ordinari “appartenenti alle varie categorie”», mentre la legge del 1958 riconosce il diritto di elettorato passivo al magistrato «che eserciti funzioni giudiziarie». Risulta implicito, dunque, «che si tratti di soggetto appartenente all’ordine giudiziario, cioè magistrato in servizio attivo». Se dei requisiti sono richiesti affinché si possa essere eleggibili, «logica vuole che tali caratteristiche debbano sussistere per tutto il tempo in cui l’eletto ricopre la carica».
E non basta, poi, il possesso della cultura della giurisdizione, che di certo non viene meno con la pensione: occorre anche un nesso tra servizio attivo e funzioni consiliari, afferma il giudice, «che possa fungere da stimolo per il consigliere elettivo nell’esercizio della sua attività consiliare in considerazione del fatto che al termine del mandato tornerà a svolgere proprio quelle funzioni giudiziarie alle quali il suo lavoro al Consiglio è stato rivolto».
Senza contare che, una volta cessata l’appartenenza all’ordine giudiziario, gli equilibri tra togati e laici voluti dai costituenti verrebbero alterati, equilibri voluti proprio per «garantire il rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura». Una delle assurde conseguenze sarebbe, infatti, la possibilità, per il magistrato in pensione, di avviare la carriera forense o quella accademica, rimanendo così nella categoria dei togati pur appartenendo ai laici, «alterando il rapporto fra le due categorie voluto dalla Costituzione». Da qui la conclusione secca: «L’appartenenza all’ordine giudiziario è la regola inespressa, destinata a recedere solo a fronte di una previsione contraria esplicita». Ora l’ex consigliere del Csm potrebbe presentare ricorso in appello. Ma le speranze di tornare a Palazzo dei Marescialli sono ridotte all’osso.