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Il pm anti mafia, nonché togato csm, Nino di Matteo e il guardasigilli Alfonso Bonafede
Premesso che tutti detestiamo le mafie e che ciascuno di noi le combatte secondo le proprie possibilità e nel proprio ambito, e che non esistono persone anti mafia o pro mafia (ad eccezione dei mafiosi, ovviamente) dobbiamo, purtroppo e ancora una volta, ricordare che anche le guerre più cruente hanno le loro regole, e che la guerra alla mafia, in uno Stato di diritto, si combatte secondo i principii dell’ordinamento giuridico a cui sono soggetti tutti i cittadini. A quei principii sono soggetti anche i Magistrati come correttamente affermato dai Magistrati di sorveglianza nel comunicato Conams - sottoscritto dalla dottoressa Fiorillo nonché dal consigliere del Csm Dal Moro, che ha stigmatizzato i toni violenti e impropri che hanno caratterizzato le polemiche all’indomani di alcune scarcerazioni di detenuti in regime di cosiddetto carcere duro. Le indignazioni dell’opinione pubblica, sempre prontamente disorientata nonché nutrita di odio e rabbia da alcune arene televisive, si sono generate dopo le pubbliche esternazioni di alcuni esponenti della Magistratura antimafia che, contrariamente all’opinione pubblica, ben conosce i meccanismi delle procedure ex articolo 147 c.p. che si svolgono innanzi alla magistratura di sorveglianza nonché, con ogni probabilità, i contenuti delle specifiche procedure che hanno determinato le “scandalose“ scarcerazioni. Immaginiamo, infatti, che i Magistrati manifestanti le loro preoccupazioni sapessero come Pasquale Zagaria fosse stato già ritenuto soggetto non socialmente pericoloso dalla Corte di appello di Napoli (infatti bisognerebbe in realtà capire come mai fosse ancora in regime ex art. 41 bis o.p.) e che Bonura, che ha ottenuto un differimento dell’esecuzione della pena in regime di detenzione domiciliare umanitaria, aveva in realtà un residuo pena di pochi mesi e condizioni di salute che rendevano impossibile la protrazione della detenzione in carcere. Immaginiamo, in sostanza, che i magistrati preoccupati sapessero bene che nessuna violazione delle regole giuridiche era stata commessa da parte dei loro Colleghi della sorveglianza e che le scarcerazioni erano state determinate da situazioni eccezionali. Nonostante queste conoscenze che attribuiamo ai magistrati preoccupati, si è ritenuto comunque opportuno provocare allarme sociale urlando attraverso i più disparati media che decine e decine di mafiosi pericolosissimi stavano per lasciare le patrie galere per andare a seminare di nuovo terrore in giro per il Paese. Ovviamente nessun contraddittorio e nessuna spiegazione tecnica ai telespettatori di trasmissioni e telegiornali urlanti. Al di là dei tecnicismi basterebbe spiegare che lo Stato dimostra la propria forza e autorevolezza quando non abdica al rispetto dei principi fondamentali su cui si fonda e che la Giustizia non è - e non deve essere – vendetta e soprattutto che la legge è uguale per tutti, anche per i peggiori criminali, perché solo così la comunità e la civiltà sono veramente tutelate e solo così si rispettano il preminente diritto alla salute ex articolo 32 Cost. e l’umanità della pena ex art. 27 Cost. Ci rendiamo conto che parlare di diritto è noioso e non fa audience ma, in realtà, pensiamo che la scelta di non fornire alcuna spiegazione e la manifestazione della preoccupazione con la conseguente indignazione avevano una loro utilità: determinare i presupposti dell’attacco all’odiato ordinamento penitenziario in cui il protagonista, almeno in teoria, è il detenuto e, specificamente, il suo percorso all’interno del sistema dell’esecuzione penale in cui la Procura resta un osservatore di questo percorso “sorvegliato” dalla tanto vituperata Magistratura di Sorveglianza. Creata la sensazione della necessità e dell’urgenza di intervenire per evitare il “liberi tutti”, rischio neanche lontanamente corso, il decretificio ha potuto produrre l’attacco all’ordinamento penitenziario, ultimamente troppo umanizzato dalla Corte Costituzionale, per cui, a colpi di ennesimo decreto (decreto n° 28 del 30 aprile 2020), per affrontare “l’emergenza”, sono state apportate modifiche ad alcune norme che, come abbiamo imparato bene, resteranno nel nostro sistema a prescindere dall’emergenza e ben oltre la stessa. Per alcuni detenuti, quelli condannati per i reati ex art. 51 commi 3 bis e 3 quater c.p.p. nonché per quelli sottoposti al regime del 41 bis o.p., sarà possibile avere permessi di necessità, quelli che si concedono in casi di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, solo dopo aver atteso il parere della Procura ed anche della DNA che, in tal modo, possono porre una sorta di veto alla Magistratura di sorveglianza che, in caso di decisione favorevole al permesso, deve esporre una motivazione rinforzata. Analogamente per quel che riguarda la cosiddetta detenzione domiciliare in deroga o “umanitaria”, i detenuti condannati per i reati prima indicati nonché quelli sottoposti al regime ex art. 41 bis o.p., potranno vedersi concessa tale particolare detenzione solo dopo che rispettivamente la Procura e la Dna abbiano espresso il loro parere circa la pericolosità del recluso che si trova in condizioni di grave infermità fisica (ora anche psichica) e che non può essere più curato in carcere. Per i detenuti in regime di carcere duro, la Magistratura di sorveglianza non potrà decidere se non dopo che siano decorsi 15 giorni dalla richiesta del parere. Tali modifiche - che introducono la necessità di richiedere i pareri alle Procure - non apportano innovazioni di sorta nel senso che ovviamente i Magistrati di Sorveglianza chiedono normalmente informazioni sulla pericolosità dei detenuti, tuttavia è abbastanza intuitivo che in caso di “imminente pericolo di vita di un familiare” o in caso di impossibilità di protrarre le cure e le terapie in carcere, aspettare rispettivamente 24 ore e 15 giorni può fare la differenza, determinando anche l’inutilità del provvedimento richiesto e, di solito, già lungamente atteso. Con queste modifiche legislative si è voluto affermare che anche per “questioni umanitarie” non si può e non si deve prescindere dall’autorità dell’Antimafia, si è voluto affermare che nel bilanciamento degli interessi in contrapposizione, la bilancia deve pendere dal lato della Procura: deve essere lei, ora, a “consentire” che la pena non sia contraria al senso di umanità. Con quest’affermazione ci pare che i principi costituzionali si affievoliscano notevolmente e che si ritenga opportuno che la pena - sempre più - tenda innanzitutto alla punizione, anche alla punizione del congiunto in imminente pericolo di vita che per salutare il figlio, il padre o la madre reclusi deve attendere il rapido benestare della Procura. Il Carcere possibile onlus