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Al posto di Matteo Renzi gongolerebbe chiunque. Consip era partita per essere la ruspa che lo avrebbe demolito, di giorno in giorno si tramuta in un incredibile boomerang per chi accusa suo padre Tiziano. «Mi stupisce, molto, che nessuno o quasi parli più dell’inchiesta su Consip», scrive l’ex premier nella sua E– news di ieri. «Ricordate? Quella che molti media hanno tenuto come apertura dei giornali e dei tg per settimane intere. Quella che ha toccato anche mio padre, e non solo lui».
Difficile dare torto all’ex premier. Di sicuro gli incredibili scivoloni di cui è stato protagonista il capitano Gian Paolo Scafarto nell’interrogatorio di giovedì scorso davanti ai pm romani non hanno avuto un’eco paragonabile a quella dell’informativa e delle precedenti indiscrezioni su Consip, sfavorevoli ai Renzi. C’è un ufficiale del Noe, Scafarto appunto, che nella ricostruzione preparata a suo tempo per i pm di Napoli adombra un’ipotesi clamorosa.
Secondo cui «il figlio Matteo Renzi» avrebbe «messo in campo tutte le risorse disponibili per tutelare la sua famiglia e quindi anche il padre», a proposito dei «motivi per cui una persona come Renzi Tiziano venga avvisato di essere intercettato». E poi ci sono alcune omissioni «curiose», per usare l’aggettivo scelto ieri da Matteo Renzi.
La prima ha avuto comunque un certo risalto sui quotidiani dello scorso fine settimana ed è l’assoluto silenzio che si rileva nell’informativa di Scafarto riguardo a una intercettazione in cui il padre dell’ex premier diceva di aver saputo dell’inchiesta che lo riguarda «da un giornalista del Fatto quotidiano », ossia Marco Lillo. A Scafarto, il procuratore Pignatone, l’aggiunto Ielo e il sostituto Palazzi gliel’hanno chiesto: ma com’è possibile, capitano, che lei abbia omesso un elemento che sarà pure fuorviante rispetto al altri indizi raccolti, ma che è pur sempre una “rivelazione autentica” ascoltata dalla viva voce dell’indagato? E com’è possibile che proprio lei, che s’interrogava su chi avesse informato Renzi senior dell’indagine e delle intercettazioni, trova una risposta, sempre fuorviante, per carità, e non ne fa parola nell’informativa?
Vero che altri elementi dell’indagine sembrano anticipare di circa un mese la “scoperta”, da parte di Tiziano, dell’esistenza dell’inchiesta. Ma si tratta di elementi riferiti da altri, in particolare da Daniele Lorenzini, sindaco di Rignano e per nulla amico di Renzi senior ( nel comune fiorentino è in corso una vera e propria faida, all’interno del Pd). La verità di Lorenzini va sottoposta a una verifica processuale.
Ma anche la tesi, farlocca quanto si vuole, che sia stato Lillo l’autore originario della soffiata meriterebbe come minimo di essere citata in un’informativa, e poi valutata davanti a un giudice. O il segugio Scafarto ignora che la pubblica accusa, al cui servizio è impiegato, deve cercare anche elementi favorevoli all’accusato?
Quest’ultimo caso si aggiunge a quello che già è un capo d’imputazione per Scafarto, ovvero l’aver omesso che la pista del controspionaggio attivato dai Servizi sulle sue indagini era stata sconfessata da successive verifiche. Sempre nell’interrogatorio di giovedì scorso i pm di Roma hanno messo sotto il naso del carabiniere le telefonate in cui rivela ad amici di aver sorvolato sul dissolversi della pista 007 «per scelta investigativa». Vistosi inchiodato, Scafarto ha subito detto: «Ne parlai però immediatamente con la Procura di Napoli. Cioè con Henry John Woodcock. Come se fosse toccato a quest’ultimo trarre le conseguenze della scoperta. O come se, sempre i magistrati partenopei, avessero condiviso con lui, Scafarto, la «scelta investigativa» di cui sopra.
Su tutto questo Renzi gongola. I suoi avversari minimizzano e controreplicano: «L’indagine è stata pesantemente sabotata o danneggiata».
L’ultima affermazione è contenuta da una nota dei parlamentari cinquestelle che fanno parte delle commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato. Quella nota a sua volta riprende alcune delle controdeduzioni riportare sul Fatto quotidiano di domenica, in particolare nell’editoriale firmato quel giorno dal direttore Marco Travaglio e titolato “Fuck news”. Tra l’ex premier e lo schieramento politico– editoriale degli ultra– giustizialisti c’è un rimpallo di responsabilità.
Il primo si «stupisce», sarcasticamente, che «nessuno o quasi più parli dell’inchiesta su Consip, quella che ha toccato anche mio padre e non solo lui: noi non ci stancheremo mai di chiedere la verità». Poi Matteo aggiunge appunto che «la verità la scrivono i giudici, a cui va la nostra fiducia, e nessun altro». E ancora «in queste ore emergono particolari curiosi, ma non ne parlano in tanti». I parlamentari grillini lamentano appunto che «l’indagine» sarebbe stata «sabotata», tirano fuori tutti gli indizi in direzione contraria alla linea del segretario pd, dalle «cimici rimosse» negli uffici Consip alla cena in cui «Tiziano Renzi avrebbe appreso dell’indagine dal comandante Saltalamacchia».
Ma non si accorgono, i pentastellati, che fare così le indagini è un guaio. Anche per loro. O meglio, per il punto di vista dell’accusa. Se tutto diventa pubblico quando ancora gli atti sono coperti da segreto, come è successo con l’informativa di Scafarto, può succedere in effetti che il lavoro delle Procure ne esca compromesso. E che magari si diffondano teorie, come alcune delle verità affermate dal capitano del Noe, frutto solo di un’incredibile manipolazione che, in assenza di un dibattimento così come previsto dal Codice, non era ancora stato possibile accertare.