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Sarà interessante sentire Matteo Salvini alla sua prima relazione sui pentiti. Tecnicamente, la “Relazione al Parlamento sulle speciali misure di protezione”. L’ultima l’ha presentata Marco Minniti. Il nuovo ministro dell’Interno non ha ancora esordito su tale terreno. Sappiamo solo che vuole «togliere anche le mutande, ai bastardi mafiosi». Ma come? Attraverso le confessioni dei collaboratori di giustizia? Non che tocchi a lui, certo, la prima linea della lotta alla mafia, presidiata da magistrati e forze di polizia. Eppure spetta al Capo del Viminale riflettere sulle decisioni della Commissione centrale, che decide se e a chi applicare i programmi di protezione. È al ministro dell’Interno chè è giusto chiedere conto dell’efficacia del sistema. Ed eventualmente, di predisporre modifiche alle norme. A oggi le collaborazioni sono regolate dalla legge 82 del 91 così come modificata dalla legge Amato, la 45 del 2001.
Naturalmente sono decisive le azioni e le valutazioni dei magistrati, compresi quelli della Direzione nazionale Antimafia, che presentano relazioni e pareri su ciascun aspirante pentito. Ma sarà Salvini a dover riflettere su due dati: il numero totale dei collaboratori di giustizia, che secondo l’ultima statistica disponibile, quella presentata appunto dal predecessore Minniti nel giugno 2017, è di 1.277 unità; l’altro dato è il numero dei boss in carcere, che si può desumere semplicemente dai detenuti in regime di 41 bis: in tutto, 730 persone. I secondi, cioè i capimafia, sono poco più della metà di chi è “beneficiato” e protetto affinché aiuti a scovare nuovi boss. Ha senso tutto questo?
Il regime speciale di detenzione resta uno dei vulnus giuridici più gravi, in Italia, ed è stato scientificamente liquidato come incostituzionale dall’ultima commissione Diritti umani del Senato. Ma qui interessa ragionare sul meccanismo che consente di decapitare le cosche. E chiedersi se i collaboratori di giustizia siano davvero ancora utili allo scopo.
La domanda, peraltro, viene suggerita da una fonte riservata dello stesso ministero dell’Interno: «I programmi di protezione sono costosi. Sono anche una scelta giudiziaria. Negli ultimi anni l’impegno complessivo dello Stato su questo fronte non è mai sceso al di sotto degli 80 milioni di euro. E se si considera il costo degli immobili messi a disposizione dei pentiti, si arriva sicuramente ai 100 milioni annui. Adesso», continua la fonte, «i collaboratori di giustizia propriamente detti dovrebbero aver superato quota 1.300. Ma se un magistrato riconosce il valore delle dichiarazioni di un mafioso, o di un camorrista, e se riferisce alla Commissione centrale che quel soggetto va ammesso al programma, ritiene che l’aspirante pentito possa servire ad accertare la verità. Ecco, per esempio, dovrebbe consentire di portare al 41 bis almeno un paio di soggetti di spessore. Non può limitarsi ad additare qualche gregario, né ad attribuire il novantesimo omicidio a Riina, cioè a chi tanto è già al 41 bis o è morto». È chiaro che se al 41 bis c’è un numero di criminali pari a poco più della metà di chi si pente, i conti non tornano. «E forse le direzioni distettuali antimafia su questo dovrebbero riflettere», chiosa l’interlocutore del Viminale.
Da una delle Dda più impegnate quanto a collaboratori di giustizia, quella di Napoli, viene poi fatto notare l’altro aspetto del problema: «Molti di coloro che sono ammessi al programma di protezione sono ormai figure di bassissimo spessore. Piccoli criminali che non hanno capacità di direzione strategica. Vanno protetti, ma non sono in grado di dare informazioni di peso. Ciononostante portano dietro costi enormi». Quello di Napoli è il distretto di Corte d’appello che produce più pentiti. Sui 1.277 totali, quasi 800 vengono da lì. I “collaboratori” dell’area che fa capo al capoluogo campano hanno famiglie numerosissime. Da proteggere a loro volta. Non solo mogli ( le donne pentite restano pochissime, 63 in tutta Italia conto 1.214 uomini). Spesso si aggiungono le nuove compagne, magari con rispettivi figli nati da precedenti relazioni. Delle comunità complesse, diciamo così, che fanno lievitare in modo impressionante l’altro dato significativo dell’affare “collaboratori”: i congiunti a cui si estende il programma. A livello nazionale sfiorano l’astronomica cifra delle 5.000 unità: sono, precisamente, 4.915.
C’è solo un’annata, nella cronologia del pentitismo, in cui si è andati oltre: il 1996. L’apice di una fase del tutto particolare, descritta dal libro di Paolo Cirino Pomicino La Repubblica delle giovani marmotte di cui diamo ampia “rilettura” in queste pagine. Ventidue anni fa si registrò il picco delle persone protette: se nell’ultimo score disponibile se ne contano 6.525, nel ’ 96 si arrivò a 7.020 persone. Grazie soprattutto al record dei familiari dei pentiti, 5.747, mentre i collaboratori veri e propri restarono comunque di poco al di sotto del primato recente: se ne contarono 1.214 ( alla somma vanno aggiunti i testimoni di giustizia, poche decine). Ma si era nel pieno della rivincita da parte dello Stato nei confronti della criminalità organizzata, in particolare siciliana. Parliamo degli anni in cui furono acquisite collaborazioni come quella di Giovanni Brusca. Oggi non si riesce a individuare più pentiti di quel “calibro”. Ed ecco perché nella lotta alla mafia, il governo, prima di ogni altra ambizione, dovrebbe coltivare quella di riconsiderare il sistema della protezione.