Per l’opinione pubblica sono la prova regina, per molti giornali un’inesauribile fonte di scoop. Telefoniche o ambientali, le intercettazioni sono sempre più spesso l’elemento cardine su cui poggiano le indagini giudiziarie: conversazioni “rubate”, ascoltate e trascritte, che svelano trame criminose e inchiodano alle proprie parole gli indagati. Eppure, il limite tra il vero e il travisato sta proprio in quest’ultimo passaggio: la trascrizione. Fatta da periti per i quali manca un albo, per i quali non è previsto un percorso universitario specifico e sottopagati dallo Stato.

SCELTI SU BASE FIDUCIARIA

Ore e ore di registrazioni, ascoltate da un operatore di polizia giudiziaria e sintetizzate nel cosiddetto “brogliaccio”, quello che il codice di procedura penale definisce “verbale in cui è trascritto, anche sommariamente, il contenuto delle comunicazioni intercettate”. Il tutto costa al Ministero della Giustizia circa 250 milioni di euro l’anno, cifra stabile dal 2012. Eppure lo dispone la norma stessa – il brogliaccio non riporta i dialoghi parola per parola, ma una ricostruzione della conversazione, prodotta dalla polizia giudiziaria. La trascrizione integrale delle registrazioni avviene in un secondo momento, attraverso un’analisi peritale. E per questa lo Stato spende 4 euro lordi l’ora, pagata a personale non qualificato.

La legge dispone che i periti siano scelti all’interno di albi professionali. In Italia, però, non esiste un albo dei trascrittori dal quale attingere e allora – sempre stando al codice – bisogna scegliere una persona di particolare competenza nella specifica disciplina. «In Italia, a differenza del resto d’Europa, non esiste una specifica disciplina di linguistica forense», spiega Luciano Romito, professore di Glottologia e Linguistica all’Università della Calabria e tra i principali esperti italiani in materia. «Per questo, il pm spesso nomina una persona di cui ha fiducia e conoscenza diretta, ma spesso senza specifiche competenze». Risultato: uno studio di Romito ha rilevato che il 43% dei trascrittori non sono laureati e il 6% ha solo la licenza media.

A gestire il passaggio più delicato di formazione della prova, dunque, sono spesso periti senza qualifiche specifiche e per di più sottopagati. Spiega il professore che, «In base ad una legge risalente, i periti trascrittori dovevano essere dipendenti statali, pagati per la lo- ro attività straordinaria. Tradotto con le cifre di oggi, i periti nominati dal tribunale vengono pagati 4 euro lordi per ora lavorativa, per non più di otto ore al giorno. Oggi gli incarichi vengono dati a privati che lavorano con partita Iva, ai quali rimangono in tasca circa 2 euro netti l’ora». Con queste cifre, è difficile immaginare di trovare dei periti esperti. I più qualificati, infatti, vengono assunti dai privati per le perizie di parte, ma non hanno alcun interesse a lavorare per lo Stato.

TRASCRIZIONE È INTERPRETAZIONE

Secondo una sentenza di Cassazione, trascrivere le intercettazioni è una “mera operazione di tipo meccanico”, un riportare le parole ascoltate su un foglio. «Ma io, da perito, ogni volta che ascolto qualcosa la interpreto», spiega il professor Romiti. Per chiarire, basta un esempio: «Spesso a dare significato alle frasi sono i silenzi. Mi è capitato di trascrivere un’intercettazione con un dialogo di questo tipo: “Senti, sono arrivate quelle cose”. “Quali? ”, “Quelle cose lì... le scarpe”. “Si? Allora me ne porti quante ne hai portate l’ultima volta? ”. Se io nel verbale avessi riportato solo le parole, il giudice avrebbe avuto un indagato che voleva delle scarpe, quante gliene aveva- no portate la volta precedente». Invece, il lavoro del perito è ricostruire anche le pause, i silenzi, gli innalzamenti e abbassamenti del tono della voce. «Ecco, io devo segnalare dal punto di vista linguistico come le frasi sono state costruite sintatticamente, la presenza di pause anomale che servono a far capire a chi ascolta che il termine utilizzato è scarpe, ma che il significato è quello che solo loro conoscono. Un verbale deve essere costruito linguisticamente, mentre se io mi limito a scrivere una parola dietro l’altra ho sì trascritto, ma ho interpretato malissimo ciò che ho ascoltato». Inoltre, anche l’ascolto non è sempre una questione lineare: possono esserci voci sovrapposte, una scarsa qualità del segnale, rumori ambientali che disturbano. Tutte interferenze che, se non indicate nel verbale peritale, rischiano di consegnare al giudice una falsa certezza.

Tutta l’operazione di trascrizione, poi, si complica nel Paese dei mille campanili. La Cassazione stabilisce che i verbali peritali siano redatti in italiano, ma capita spesso che conversazioni captate siano in dialetto. Questo comporta, quindi, una prima stesura in dialetto, perchè la trascrizione deve essere fedele a ciò che si ascolta nel segnale, e poi una seconda “traduzione” in italiano. «Al giudice, però, per capire davvero l’intercettazione, non serve una traduzione letterale dal dialetto», spiega il professor Romito. «Per esempio, dalle mie parti in Calabria quando si incontra qualcuno spesso si usa l’intercalare “t’ammazzera”. Letteralmente significa “ti ucciderei”, ma se io lo trascrivessi in questo modo, la traduzione in italiana avrebbe un senso completamente differente rispetto al suo significato e potrebbe essere interpretata in giudizio in chissà quanti modi».

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Eppure, se è possibile nominare un esperto linguistico quando nelle intercettazioni si parla in lingua straniera, lo stesso non è possibile nel caso di conversazioni in dialetto. Oggi, però, molte inchieste di ‘ ndrangheta vengono condotte non in Calabria - dove i periti con competenza dialettale sono presenti sul territorio - ma a Milano e Genova, dove le cosce fanno affari. «Un decreto del Ministero stabilisce che i periti debbano essere scelti tra i residenti nel comune del tribunale, per risparmiare sulle spese. Allora i giudici più accorti cercano, nelle liste dei periti da poter nominare, quelli con cognomi del sud. Eppure la questione dialettale è complicatissima: solo in Calabria ci sono molti dialetti diversi». Ma, mancando un riconoscimento dei dialetti da parte dell’ordinamento, è impossibile utilizzare questo come criterio di nomina del perito.

COME IL DNA

«In un procedimento, ho contato la bellezza di 13 perizie richieste. Questo perchè il segnale della registrazione era talmente degradato che ognuno sentiva una cosa diversa», ha raccontato il professor Romito. La voce è un identificatore univoco, come le impronte digitali e il Dna, eppure non esiste una normativa che fissi uno standard al di sotto del quale l’intercettazione non è utilizzabile, come succede nel caso del ritrovamento di impronte digitali che, se non hanno sufficienti punti di riconoscimento, vengono considerate inadatte per procedere all’identificazione. I periti trascrittori, invece, non possono affermare lo stesso quando il segnale da trascrivere ha troppo rumore.

Proprio il supporto audio da ascoltare – che è la vera prova in dibattimento, non la sua trascrizione – apre un’ulteriore questione: come vengono effettuate le registrazioni? La legge stabilisce che siano fatte con macchinari della Procura, ma sempre più spesso le intercettazioni vengono cedute in subappalto a ditte private che, per risparmiare, registrano in bassa qualità, comprimendo il segnale. In questo modo si risparmia perchè, comprimendo in qualità mp3 la traccia audio, un cd può contenere l’intera giornata di intercettazione e non solo qualche ora. Risultato: un’intercettazione telefonica probabilmente rimane intellegibile ma, nelle intercettazioni ambientali ( in cui entrano in gioco i fattori circostanziali come il vento, i fruscii e le voci sovrapposte), il grado di certezza della trascrizione si abbassa drasticamente.