Il Santo Padre il 9 maggio 2024, durante i secondi Vespri della Solennità dell’Ascensione, in occasione della consegna della Bolla di indizione del Giubileo ordinario alle Chiese dei cinque continenti, aveva sollecitato i governi di tutto il mondo ad assumere nell’Anno del Giubileo iniziative «per restituire speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi».

Cogliere questa sollecitazione sarebbe stata per il governo Meloni una grande occasione per risolvere l’enorme problema del sovraffollamento carcerario che da anni affligge incessantemente il nostro sistema penitenziario e che, purtroppo, nessuno dei governi che si sono succeduti nel corso degli ultimi anni ha tentato di affrontare seriamente.

Governare vuol dire risolvere i problemi che si presentano in un determinato momento storico ma, per farlo, occorre una profonda conoscenza della loro origine. Solo quando si hanno bene a mente le coordinate delle questioni che si affrontano se ne possono individuare le soluzioni. È come quando si cura una malattia: senza averne fatto una diagnosi precisa non si potrà mai debellarla. Se ne potranno, al limite, lenire i sintomi, ma se non si risale alla causa, essa non potrà mai essere sconfitta.

Da più parti si avverte la grave crisi che sta vivendo oggi il nostro sistema penitenziario soffocato dalle ataviche condizioni delle carceri, vecchie, del tutto inadeguate ad assicurare un trattamento dignitoso, sovraffollate e, soprattutto, totalmente disorganizzate ed inidonee ad attuare l’unico scopo che la Costituzione riconosce alla pena: la funzione rieducativa.

SERGIO MATTARELLA NEL 2022: RESTITUIRE LA DIGNITÀ

A tale riguardo, viene subito alla mente il Messaggio che in data 3 febbraio 2022, in occasione del suo secondo giuramento, il neoeletto Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, rese al Parlamento: «Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza ».

In effetti, ancora di recente, sfogliando i repertori di giurisprudenza, non è inconsueto imbattersi in decisioni della Corte di cassazione che, al termine dei procedimenti risarcitori ex art. 35-ter l. n. 354 del 1975, hanno accolto i ricorsi di detenuti da cui emergeva che durante il periodo di detenzione, oltre a non essere stato loro assicurato lo spazio minimo vitale di 3 mq (nella specie di 1.20 mq 'pro capite' a causa dell'ingombro di un tavolino - da riporre in bagno per potersi coricare nel letto), non erano stati loro neppure garantiti gli elementi minimali del trattamento penitenziario a causa dell’assenza dell’acqua calda; dell'inadeguatezza del riscaldamento; del turno doccia, reso possibile tre volte a settimana con acqua fredda e la permanenza complessiva all'interno della cella per quindici ore giornaliere (così nella vertenza decisa da Cass. civ., Sez. III, Ordinanza, 29/03/2023, n. 8878 (rv. 667241-01).

Ancora, è possibile incappare in decisioni che si sono dovute occupare di istanze risarcitorie avanzate da detenuti che hanno lamentato l'assenza di una effettiva e completa separazione tra il locale bagno ed il resto della camera detentiva (Cass. pen., Sez. I, 23/01/2019, n. 15306) o, ancora, la prolungata assenza di acqua potabile (Cass. pen., Sez. I, 08/02/2024, n. 21590).

La grave situazione in cui versano le carceri italiane può essere definita, come detto, un problema atavico che si presenta sistematicamente e nella stessa drammaticità da quando esiste l’unità d’Italia.

FILIPPO TURATI NEL 1904: LE CARCERI SONO UNA VERGOGNA NAZIONALE

Filippo Turati, nel 1904, in un discorso alla Camera dei deputati disse che « le carceri italiane, nel loro complesso, sono la maggiore vergogna del nostro Paese. Esse rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale, nella forma più atroce che si abbia mai avuto: noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura, la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono a goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice; noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti, o scuole di perfezionamento dei malfattori».

FRANCESCO CARNELUTTI NEL 1945: SEGNI MANIFESTI DI INCIVILTÀ

Francesco Carnelutti, 40 anni dopo, in un prezioso contributo pubblicato nel 1945 dovette constatare come occorresse giungere ad una profonda revisione, « delle nostre idee o delle nostre abitudini in ordine al fabbisogno finanziario del processo. Non v'è alcun'altra funzione dello Stato, la quale debba passare avanti alla funzione giudiziaria, e di questa la funzione penale è la guisa suprema. Che finora a questa funzione siano state dedicate minori cure e minori spese che ad altre, senza confronto meno essenziali ·ai fini dello Stato, è ancora uno dei segni manifesti della nostra inciviltà. D'altra parte è ora di smettere, almeno in Italia, il malvezzo di far prevalere il decoro estrinseco della funzione alla intrinseca idoneità dell'organo, che la esercita: avere speso enormi· somme per la costruzione di monumentali palazzi di giustizia lasciando incredibili deficienze tecniche nei tribunali e nei reclusori, io spero che d'ora innanzi non sarà più tollerato» (Il problema della pena, Tumminelli, pag. 78).

PIETRO CALAMANDRE NEL 1948: TUTTO È RIMASTO FERMO

Nel 1948 Pietro Calamandrei raccolse in un Volume edito dalla rivista Il ponte i contributi di autorevoli voci che descrivevano le situazioni in cui versavano le carceri italiane dell’epoca ed è incredibile dover constatare come tutto sembri essere rimasto fermo. È come se il tempo, in questo settore, non fosse riuscito a scalfire le disfunzioni nonostante i legislatori che si sono succeduti non siano certamente rimasti totalmente inerti.

I 50 ANNI DALLA RIFORMA PENITENZIARIA DEL 1975

Quest’anno si celebrerà il cinquantesimo compleanno della l. n. 354 del 1975 che ha riformato l’ordinamento penitenziario soppiantando il regolamento carcerario emanato in piena era fascista che, al suo interno, prevedeva norme che, oggi, ci possono apparire in un certo senso assurde, come il fatto che i detenuti dovessero essere chiamati per numero, che agli stessi, per motivi disciplinari, potesse essere somministrato pane e acqua e che, per ragioni di sicurezza, potessero essere anche applicate misure di contenzione.

Tutto questo è stato superato ma, come è stato autorevolmente notato, per molta parte quella legge – che certamente ha fatto passi da gigante rispetto al vecchio regolamento – è rimasta un gran bel libro dei sogni perché, nonostante le numerose prescrizioni che dovrebbero garantire un trattamento penitenziario conforme ad umanità ed in grado di assicurare la dignità delle persone (come, ad esempio, il fatto che gli istituti penitenziari devono essere dotati di locali per le esigenze di vita e di locali per lo svolgimento di attività lavorative, formative; che i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati debbano essere di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura, areati e riscaldati per il tempo in cui le condizioni climatiche lo esigano e dotati di servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale o, ancora, che ai detenuti ed agli internati deve essere assicurato l’uso adeguato e sufficiente di servizi igienici e docce fornite di acqua calda), come si è visto, ci sono ancora detenuti rispetto ai quali questi ‘lussi’ costituiscono ancora un miraggio.

Se è vero che la civiltà di un popolo si misura dalla qualità delle sue prigioni piuttosto che da quella dei suoi palazzi (come, secondo taluno, avrebbe detto Voltaire), si dovrebbe provare vergogna anche solo a pensare che oggi vi possano essere cittadini che subiscono trattamenti del tipo di quelli che si sono descritti, oltretutto nel più imbarazzante silenzio dell’opinione pubblica.

L’IMPEGNO DEL GOVERNO DRAGHI PER UNA RIFORMA

Il 13 febbraio 2021si era insediato il governo Draghi, sostenuto da una coalizione ad ampio spettro a cui avevano preso parte anche quelle stesse forze politiche (si pensi a Lega e M5S) che, cavalcando le onde del populismo, nella precedente legislatura, non avevano mancato di imprimere sul sistema penitenziario le ombre della più violenta deriva giustizialista e securitaria (al governo Conte sostenuto dalla coalizione giallo-verde, infatti, si deve uno dei più aberranti ritocchi all’art. 4-bis della l. n. 354 del 1975 quello apportato attraverso l’art. 1, comma 6, lett. a) e b) della l. 9 gennaio 2019, n. 3, che aveva introdotto nel catalogo dei reati rispetto ai quali trova applicazione lo speciale regime dei divieti di concessione dei benefici penitenziari i reati contro la pubblica amministrazione).

Ebbene, nonostante l’eterogeneità delle forze di sostegno, sin dal momento del suo insediamento, quel governo presieduto dall’ex presidente della Bce aveva lanciato chiari segnali di nuovi impulsi riformatori destinati a riflettersi sul diritto penitenziario e a segnare, almeno nelle intenzioni, una significativa inversione di rotta rispetto alle esperienze del passato. Le linee più chiare di questo nuovo corso possono essere certamente rivenute nelle comunicazioni della ministra della Giustizia, la professoressa Marta Cartabia, sulle linee programmatiche del suo Dicastero in materia di giustizia.

Nell’ambito dell’articolato discorso presentato alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) del Senato, in data 18 marzo 2021, nel tracciare la mappatura dei « problemi più urgenti e improcrastinabili » da affrontare per riuscire a « contribuire a rispondere almeno ad alcune delle domande di giustizia che ardono in vari ambiti del nostro paese», la professoressa Marta Cartabia ha rivolto lo sguardo anche alla «fase dell'esecuzione penale» promettendo l’impegno del governo anche in tale settore non solo perché «la qualità della vita dell'intera comunità penitenziaria, di chi vi opera, con professionalità e dedizione, e di chi vi si trova per scontare la pena, è un fattore direttamente proporzionale al contrasto e alla prevenzione del crimine», ma perché «perseguire lo scopo rieducativo della pena non costituisce soltanto un dovere morale e costituzionale come si legge inequivocabilmente nell'art. 27 della Costituzione - ma è anche il modo più effettivo ed efficace per prevenire la recidiva e, quindi, in ultima analisi, per irrobustire la sicurezza della vita sociale».
(fine prima parte – Per gentile concessione di “(in)GIUSTIZIA, Parola alla difesa”, Camera Penale di Cosenza)