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Tolmezzo
Non si ferma lo sciopero della fame intrapreso dai sette internati al 41 bis del carcere di Tolmezzo che teoricamente dovrebbe essere una “casa lavoro”. Come già denunciato ieri su Il Dubbio tramite le parole dell’avvocato e militante dei radicali italiani Michele Capano, la serra che dovrebbe tenere occupati gli internati, in realtà non è in funzione da moltissimi mesi e quindi accade che la misura di sicurezza si svolge quasi interamente al 41 bis come gli altri detenuti.
In mancanza di ciò, il magistrato di sorveglianza non ha gli strumenti per valutare la mancata cessazione della pericolosità sociale e quindi la proroga diventa pressoché automatica. L’avvocato Vincenzo De Rosa, che assiste uno dei sette internati, ha fatto sapere che i familiari degli internati hanno manifestato pacificamente davanti al carcere.
«I familiari del mio assistito – spiega De Rosa a Il Dubbio – mi hanno raccontato che grazie alla protesta davanti al carcere, sono riusciti ad ottenere l’intervento dei Carabinieri che avrebbero effettivamente constatato il disuso della “famosa” serra». La segnalazione è giunta anche a Rita Bernardini del Partito Radicale, che della questione se ne occupò da quando nel 2016 andò a visitare il carcere de L'Aquila dove prima erano ospitati gli internati al 41 bis. Ed era lì che c’era il problema della mancanza di lavoro. Grazie a quella segnalazione, l’ex capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo li aveva trasferiti a Tolmezzo per farli lavorare nella serra.
Ora, il problema si ripropone ugualmente. Ma si aggiunge anche un altro particolare. «In realtà – spiega sempre l’avvocato De Rosa – quando il mio assistito si trasferì a Tolmezzo, si rese conto che la serra era certamente aperta, ma venivano portati lì senza far nulla, senza che ci fosse qualcuno che li istruiva». L’avvocato racconta che il suo assistito a un certo punto si era ribellato perché, di fatto, sembrava una presa in giro. «È quindi accaduto – denuncia De Rosa – che il magistrato di sorveglianza aveva rinnovato la misura di sicurezza usando come motivazione il fatto che l’internato si era rifiutato di lavorare».
Ora però, i rinnovi avvengono perché il lavoro non c’è e quindi non c’è possibilità di dimostrare la cessazione della propria pericolosità sociale. Un’altra stortura di questi provvedimenti consiste nel fatto che questa misura di sicurezza, sulla carta, non è considerata una pena. Quindi cosa può accadere? L’avvocato Vincenzo De Rosa fa l’esempio del suo assistito. «Formalmente – spiega l’avvocato è in casa lavoro, ma nello steso tempo è stato raggiunto da una misura cautelare agli arresti domiciliari e visto che teoricamente l’internato non sconta una pena, qualora dovrà essere condannato, questi anni da internato non verranno sottratti all’eventuale pena da scontare».
Il dramma degli internati, in realtà, era stato originariamente preso in considerazione dalle scorse commissioni parlamentari per l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. C’era stato un decreto apposito, ma poi accantonato dallo scorso governo. Tale decreto si prefiggeva di modificare le misure di sicurezza e portare a un ridimensionamento del sistema del famigerato “doppio binario”.
Si tratta di misure che interessano l’autore di reato socialmente pericoloso e che, secondo un assetto che risale al codice Rocco, si aggiungono alla pena (per gli imputabili e i semi- imputabili), ovvero rappresentano l’unica misura applicabile ( per i non imputabili): la casa di lavoro, la colonia agricola, le comunità per i minori ( già riformatorio giudiziario) e il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e di custodia ( tra quelle detentive); le ultime due già oggetto di un ampio intervento di riforma, negli anni scorsi, ha portato alla chiusura degli Opg e all’introduzione delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems).
Il decreto in questione non avrebbe eliminato le misure di sicurezza (anche se veniva auspicato da più parti), ma ridimensionato considerevolmente il sistema del doppio binario a vantaggio di misure a carattere riabilitativo e terapeutico e del minor sacrificio possibile della libertà personale, fatto salvo il contemperamento con le esigenze di prevenzione e tutela della collettività.
Ma il decreto, come detto, è stato accantonato per sempre e così gli internati rimangono senza diritti e vittime di un retaggio del ventennio che li porta ad essere gli “ultimi degli ultimi” all’interno della patrie galere.