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L’inchiesta del Dubbio sul 41 bis si conclude con l’intervista dell’avvocato penalista Maria Brucale, membro del direttivo di Nessuno tocchi Caino ed esperta delle problematiche della carcerazione dura.
Qual è la sua opinione sul 41 bis? Secondo lei andrebbe abolito, oppure attenuato?
Io sono per l’abolizione del regime detentivo differenziato. È nato nel 1992 per rispondere a una situazione di emergenza, quella determinata dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Già allora era chiaro che lo speciale regime privativo nel derogare, per una categoria di carcerati, al normale trattamento intramurario, fosse incostituzionale tanto che si dispose una durata limitata della norma che lo prevedeva. E, tuttavia, a colpi di rinnovate emergenze si è giunti all’attuale situazione. È chiaro che in alcuni casi, in virtù della gravità del reato commesso, sia necessario predisporre particolari cautele ma, a ben vedere, è ciò che ordinariamente accade nella assegnazione a specifici circuiti delle persone che accedono agli istituti di pena. L’ordinamento penitenziario è - coerentemente con l’art. 27 della Costituzione - interamente orientato alla rieducazione del ristretto e a un trattamento intramurario individualizzato, il più possibile rispondente alla personalità del soggetto. Basta soffermarsi su tale aspetto per rendersi conto della vistosa incostituzionalità di un regime che sospende per tempi indefiniti l’accesso del ristretto alla rieducazione. Ci sono persone detenute in regime differenziato fin dal tempo dell’entrata in vigore dell’art. 41 bis dell’Ordinamento penitenziario; 25 anni di carcere duro che isola dagli affetti e costringe in ambiti asfittici ogni anelito di vita emotiva e creativa. Si tratta di carcerazioni punitive sottratte per legge alla finalità cui ogni pena deve tendere, la restituzione dell’individuo alla società.
Su Il Dubbio il Dap ha annunciato la prossima emanazione di una circolare relativa al 41 bis. Ci è stato spiegato che sarà volta soprattutto a uniformare le regole. Soddisfatta?
La circolare relativa al 41 bis era già menzionata nella relazione del ministero sull’amministrazione della giustizia dell’anno 2016. Risultava già elaborata e trasmessa al Capo di gabinetto per la condivisione. Tale circolare, si legge nella relazione: ' si prefigge di raggiungere una piena funzionalità del regime nel corretto bilanciamento degli interessi connessi alla sicurezza penitenziaria e alla dignità del detenuto, titolare di diritti soggettivi che non devono venire meno per effetto della sottoposizione al regime speciale, con l’esclusione di ogni disposizione che possa essere interpretata come inutilmente afflittiva. L’uniformità di metodo, oltre a implementare le buone prassi già attuate nel rispetto dei diritti inviolabili dei detenuti, consentirà di fornire risposte univoche alle richieste di intervento della magistratura di Sorveglianza'. Certamente, la vocazione manifestata dal provvedimento è positiva e sembra prendere le mosse da una onesta constatazione: oggi il regime di 41 bis lede la dignità del detenuto attraverso varie forme di limitazione che nulla hanno a che vedere con la tutela della sicurezza. È indubbiamente un primo passo e, tuttavia, mi sembra assai presto per manifestare soddisfazione. L’esperienza, soprattutto quella recente degli Stati Generali sull’esecuzione penale, ci ha insegnato che i buoni propositi nella direzione dello Stato di Diritto fanno molta fatica a farsi strada nelle maglie di un tessuto sociale giustizialista, carcerocentrico e retributivo. Va anche detto che in alcuni casi la legge che disciplina il 41 bis lascia spazi di interpretazione costituzionalmente orientata ed è nell’ambito di tali spazi che particolari situazioni soggettive hanno trovato tutela da parte di alcuni luminosi magistrati di sorveglianza. Ciò ha generato alcuni aspetti di difformità tra i diversi istituti di pena. Credo, però, che si debba fare attenzione anche al concetto di uniformità del trattamento che sembra anteticamente contrapposto a quello di individualizzazione. A volte, invece, è proprio la norma a prevedere sbarramenti o vessazioni che non hanno correlazione alcuna con l’ottica di prevenzione del crimine e in tali casi un intervento di adattamento per mano dell’amministrazione penitenziaria è ovviamente precluso. Allora servirebbe una presa di coscienza del legislatore, o della Corte Costituzionale adita. Tra le righe della menzionata relazione di fine anno del 2016, si legge un altro dato caratterizzante: nel corso del 2016, i decreti che disponevano il 41 bis annullati sono stati 6, mentre quelli revocati a seguito di intrapresa attività di collaborazione sono stati 11. Tale indicazione chiarisce, ove ce ne fosse bisogno, la natura autentica delle carcerazioni esasperatamente afflittive quale strumento di persuasione coatta alla collaborazione con la giustizia
Lei è stata uno degli avvocati di Bernardo Provenzano e si è battuta per fargli ottenere la revoca del 41 bis viste le sue condizioni psicofisiche. La battaglia l’avete persa e lui è morto nell’ospedale milanese di San Paolo in regime di 41 bis. Ora si parla di Totò Riina, secondo lei il caso è comparabile con quello precedente?
Quella battaglia l’ha persa lo Stato di Diritto. Provenzano è morto in 41 bis perché rappresentava un simbolo del male. E il medesimo vessillo appartiene a Salvatore Riina. Qui è la similitudine tra le due situazioni. Entrambi icone dell’antistato. Entrambi reclusi mentre la vecchiaia e la malattia li rendono muti e inermi. Per il resto la loro situazione è identica a quella di quanti, detenuti, sono custoditi dallo Stato che deve garantire loro il rispetto della legge, quella stessa legge che hanno calpestato e vilipeso perché è nella legge e non nella vendetta che lo Stato esprime il suo potere e si rende riconoscibile. Eppure il clamore che ha fatto seguito alla sentenza della Cassazione che ha annullato la decisione con cui il Tribunale di Bologna aveva negato a Riina il differimento della pena per la gravità delle sue condizioni di salute, dimostrano che la gente vuole vendetta, un cadavere su cui sputare e un mostro da additare, la legge del taglione, morte con morte, orrore con orrore. Il Diritto, però, è un’altra cosa. La Cassazione ha solo esercitato il suo potere di controllo sul rigore motivazionale di un provvedimento che incide sui diritti della persona. Ma temo che la serenità di giudizio del tribunale competente sia già stata compromessa dal feroce tumulto di popolo.
L’inchiesta del Dubbio ha affrontato anche la vicenda nota come “Protocollo Farfalla”, un’operazione di intelligence volta a scoprire se dietro le proteste dei detenuti e associazioni o movimenti politici garantisti ci fosse un consolidamento tra la criminalità organizzata e il mondo della società civile che si batte per i diritti. Pensa che possa ritornare quel clima di sospetto?
Temo che quel clima di sospetto non si sia mai sopito e che la criminalizzazione delle battaglie di Diritto scomode sia un facile approdo per chi non vuole farsene carico. Sono battaglie di civiltà che richiedono un altissimo senso di rispetto per le Istituzioni, abnegazione, rigore morale, coraggio. Sembra un richiamo alla cristianità, ma quanto è più semplice difendere il cittadino per bene? La persona specchiata, socialmente apprezzata? Quando Abele muore, che faranno i genitori di Caino, figlio assassino rimasto in vita? Gli strapperanno il cuore dal petto o cercheranno di recuperarlo? Ciò che si deve comprendere è che i diritti inalienabili appartengono a qualunque uomo nella stessa misura e che c’è una linea dell’invalicabile che non può essere mai oltrepassata, pena la confusione tra lo Stato e il criminale. Solo la comprensione autentica di questa premessa consente di eliminare quell’alone fuligginoso che viene impresso addosso a chi tutela i diritti delle persone che hanno commesso reati.