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C’è un passaggio molto bello di un articolo firmato da Mariarosaria Guglielmi sull’ultimo numero di Questione giustizia. Riguarda l’ipotesi di introdurre il sorteggio per eleggere i togati al Csm, allontanato ma idealmente non ancora abiurato dalla politica. Guglielmi, pm a Roma e segretaria di Magistratura democratica, scrive così sulla rivista on- line eletta a luogo di riflessione per le toghe dello storico gruppo “di sinistra” della magistratura: “La proposta di sorteggio per il Csm incrocia il sentire del momento, le spinte antisistema che rifiutano i meccanismi della rappresentanza e dell’intermediazione, e mira a una riconfigurazione dell’istituzione privandola delle sue potenzialità democratiche, che derivano dalla politicità e dal pluralismo culturale.
Due valori che, insiti nella fisionomia voluta dai Costituenti, sono essenziali per un governo democratico della magistratura e per la difesa delle prerogative di indipendenza della giurisdizione: il Consiglio che esprime una sua politicità, attraverso la dialettica fra le diverse componenti e, all’interno di quella togata, fra idealità, visioni e istanze di diverse aree culturali, si sottrae al rischio di etero- direzione e di subalternità alla sfera politica esterna”.
È una riflessione esemplare. Che insegna qualcosa ai partiti, prima che ai magistrati. Che fa giustizia di troppe impennate retoriche contro la politica di professione. Guglielmi sostiene che un Csm politicamente connotato è una ricchezza. Che la “politicità” e il “pluralismo” sarebbero addirittura uno scudo nei confronti di chi, quell’istituzione — e l’intero ordine giudiziario — vorrebbe “eterodirigere”. E cos’altro, se non proprio un simile destino, può toccare a una politica che svuota se stessa del pluralismo? In quale diverso esito potrà mai sperare il Parlamento eletto sulla base della riforma che ne ha ridotto i componenti, se non si troverà la formula per assicurare l’effettività della rappresentanza democratica? Quale altro pericolo incombe, per la più alta delle istituzioni repubblicane, se non quello di scoprirsi così irrigidita dalla propria scarnificazione da perdersi e finire facile preda di altri poteri, probabilmente sovranazionali e impolitici?
Nella più profonda delle crisi che la magistratura abbia conosciuto dal Dopoguerra, dunque, si distinguono ancora voci in grado difendere le vituperate correnti con il più politico dei discorsi. Spiazzante e in apparenza autolesionistico. Perché se al congresso che proprio oggi l’Anm apre a Genova, così delicato e atteso, la riflessione di Guglielmi diventasse patrimonio condiviso, sarebbe facile dall’esterno additare una magistratura tutta avvinghiata attorno allo status quo della sua cosiddetta politicizzazione.
Sarebbe inevitabile e comodo cogliere in una difesa del “politicismo” dei gruppi della magistratura il sintomo di una patologia irriducibile. E invece, se è lecito offrire un suggerimento alla segretaria di Md, verrebbe da incoraggiarla a insistere. E anzi, come fa nella prima parte del suo intervento, a ribaltare le accuse di politicismo recidivo in un invito affinché la politica stessa ritrovi la ricchezza delle proprie diversità. Affinché non semplifichi la rappresentanza, non la riduca a una faccenda sbrigativa o a un orpello mal tollerato, ma pretenda di avere in se stessa la più vasta ricchezza possibile di istanze e di identità.
In ultima analisi, il felice paradosso di Guglielmi è nell’appello alla riscoperta dei corpi intermedi che viene proprio dal mondo accusato di averli impropriamente mutuati dalla politica. Con il sorteggio avremmo avuto un Csm forse meno esposto agli incroci con la componente laica ma più incolore, grigio e indifeso. Più esposto a essere eterodiretto, come dice Guglielmi.
Potrà sembrare curioso che siano i magistrati, in apparenza umanoidi pagati per sfornare sentenze con asettico distacco, a ricordarci come la ricchezza della politica sia nelle differenze. Ma non è vero, non c’è nessuna sorpresa. In una dinamica che ha ridotto lo status di “politico” a un’onta da nascondere, le classi dirigenti tendono ormai a tenersi lontane dai partiti e dal Parlamento. Difficile perciò che una così profonda consapevolezza possa venire da una classe politica condannata ormai a vergognarsi di esserlo.
Viene invece dalla magistratura perché si tratta di una delle ultime élites a sopravvivere nelle istituzioni. Non foss’altro per l’asprezza del percorso formativo a cui un giovane deve sottoporsi per diventare magistrato. Ben venga l’appello a riscoprire la politica da chi, secondo molti, dalla politica dovrebbe stare lontano. Può darsi che siano proprio i magistrati, nel momento più difficile della loro storia recente, a trovare nell’affanno le parole per restituire al Paese un sano istinto di autoconservazione.