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Buone notizie per i dipendenti pubblici che devono timbrare il cartellino. Possono farlo anche in mutande. Dalla Liguria arriva una decisione del giudice per le udienze preliminari Paolo Luppi che sicuramente farà giurisprudenza. Ricordate il caso di quel vigile urbano di Sanremo sorpreso in slip davanti alla macchinetta del Comune? Era il 22 ottobre 2015. Per Alberto Muraglia, custode e vigile del mercato annonario, si aprì l’abisso del processo mediatico. Le sue mutande fecero il giro del Paese tra l’indignazione generale. Alle 6.20 di quel 22 ottobre era sceso da casa sua, a due passi dalla macchinetta, così com’era, in mutande, decisamente non un bel vedere. Divenne il simbolo del malcostume, il furbetto del cartellino, assieme ad altri che ebbero meno notorietà magari solo perché più vestiti. 34 arresti, decine di indagati. Un caso nazionale. L’allora premier Matteo Renzi fu tranchant nel giudizio: “Questa è gente che andrebbe licenziata in 48 ore. E’ una questione di dignità”. Quasi cinque anni dopo, Alberto Muraglia si riprende decoro e, metaforicamente, anche le sue tanto vituperate mutande. Sì, perché il giudice decide che “il fatto non sussiste”. Volendo sconfinare nel paradosso, si può timbrare in boxer e, nel caso di dipendenti donne, in vestaglia trasparente. L’importante è non truffare lo Stato, poi ognuno ha il gusto estetico che si ritrova. Così dalla sentenza: “Anche ammesso che il Muraglia abbia timbrato in mutande o abiti succinti non va dimenticato che le contestazioni mosse al predetto imputato erano di falso e di truffa… non di atti osceni o di atti contrari alla pubblica decenza… pertanto questo giudice ritiene che la timbratura in abiti succinti non costituisca neppure un indizio di illiceità penale...”. Dalle indagini emerge che l’ex vigile era un instancabile lavoratore. Anche quella mattina del 2015 Muraglia scese seminudo per la fretta di timbrare e poi partecipare alla rimozione di un veicolo vicino al mercato. Alle 6.20 era già posizionato in slip davanti alla macchinetta e alle 6.30, dice il suo avvocato, già faceva la contravvenzione al proprietario della macchina. Da impiegato additato al pubblico ludibrio a eroe dell’amministrazione pubblica. In Italia il passo può essere breve. Muraglia ha scelto il rito abbreviato per togliersi di dosso l’onta delle mutande: “Ho dovuto cambiare vita. Questi anni nessuno me li restituirà. Sono stato torturato mediaticamente e trasformato in un simbolo. Ho peccato di malcostume, forse di scorrettezza amministrativa (qualche volta scendeva la moglie da casa a timbrare, ma dai nulla di grave) non certo di truffa allo Stato”. L’happy end del caso Sanremo apre la strada ad un ipotetico tana libera tutti per coloro che sono costretti a presentarsi al lavoro in giacca e cravatta, divisa o tailleur. Possono timbrare in libertà e togliersi, soprattutto d’estate, i panni di troppo. Basta che non rubino. Naturalmente le sole mutande hanno un potere evocativo maggiore di altri abbigliamenti ridotti. Non a caso Roberto D’Agostino, fondatore del sito di gossip Dagospia, intitolò “Mutande Pazze” il suo unico film, scritto nel 1992, prima di Vallettopoli e del Bunga Bunga”. Raccontava il “mercato della carne” dentro la televisione italiana. Ma il vigile di Sanremo certo non sapeva di essere “trendy” sciabattando verso la macchinetta. Nè Muraglia si è interrogato, alle sei del mattino , sulle tormentate vicissitudini dell’ex governatore del Piemonte Roberto Cota, condannato in appello per aver acquistato con denaro pubblico un paio di boxer verdi. Perciò a tutti un consiglio nella scelta di come presentarsi di fronte all’obliteratrice: l’accappatoio, nonostante il precedente giudiziario favorevole creato dal caso Sanremo, è meglio.