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Giornali locali vietati ai boss al 41 bis per mero sospetto, nonostante riguardino luoghi di non appartenenza. La Cassazione dà ragione a un detenuto al regime duro e rimanda il provvedimento contestato al tribunale per un nuovo esame. Come si sa, tra i vari divieti ferrei, i detenuti possono leggere solo giornali nazionali, ma non locali per impedire che i boss si informino «sulle vicende connesse al clan criminale ovvero per verificare l’avvenuta esecuzione dei propri ordine veicolati all’esterno». Nel caso specifico, tale divieto però è esteso anche per chi legge notizie locali non appartenenti al proprio luogo di origine.
Parliamo del boss barcellonese Giovanni Rao, ristretto nella casa circondariale de L’Aquila al quale, tramite un provvedimento dell’ottobre 2018 della Corte d’assise di Messina, era stato ordinato il «divieto di acquisto o ricezione dei giornali di stampa locale, indipendentemente dalla loro provenienza geografica». L’avvocato difensore Franco Scattareggia del foro di Messina, ha fatto ricorso in Cassazione e quest’ultima gli ha dato ragione annullando il provvedimento contestato e rinviando gli atti al Tribunale di Messina per un nuovo esame.
«La ratio del divieto nei confronti del mio assistito - spiega l’avvocato e costituzionalista Scattareggia - è quella che potrebbe diffondere nell’ora di socialità notizie locali ad altri boss e quindi veicolare messaggi». Ma il problema è che questo divieto si basa, appunto, su un mero sospetto.
Il ricorso posto dall’avvocato, quindi, è in punto di diritto prendendo come riferimento primario l’esistenza del diritto fondamentale all’informazione tutelato dall’articolo 21 della Costituzione. «L’estensione e la portata dei diritti dei detenuti – prosegue il legale - può subire restrizioni di vario genere unicamente in vista delle esigenze di sicurezza inerenti alla custodia in carcere», ma «in assenza di tali esigenze, la limitazione acquisterebbe unicamente un valore afflittivo supplementare rispetto allo scopo del 41 bis».
Ma c’è anche la convenzione europea che garantisce il diritto all’informazione e, non a caso, diverse sentenze della Cedu fanno riferimento ad essa anche quando si tratta delle persone private della libertà. Quindi il ricorso, accolto dalla Cassazione con rinvio, si fonda sulla lesione del diritto all’informazione. Tali afflizioni aggiuntive, in generale, sono state evidenziate anche dal Garante nazionale delle persone private della libertà tramite il Rapporto tematico sul regime detentivo speciale.
Nel capitolo dove ci sono le raccomandazioni che riguardano gli ulteriori diritti, il Garante ha sottolineato che l’esercizio del diritto all’informazione del detenuto è parso in altri casi essere limitato dalla mancata consegna di articoli di stampa o pubblicazioni che, pur estranee alla vicenda del detenuto, facevano generale riferimento al contrasto alla criminalità organizzata. Condotta che il Garante ha ritenuto - nei casi non strettamente necessari - idonea a compromettere l’effettivo accesso all’informazione.
La ratio del regime del 41 bis è quella di rafforzare la funzione custodialistica del carcere e spezzare i legami con la consorteria mafiosa di appartenenza: si vuole impedire che il detenuto possa continuare a “guidarla” ed impartire ordini nonostante la reclusione, nell’ottica di una guerra dichiarata alla criminalità di tipo mafioso a tutto campo. Un regime detentivo che, non a caso, si è guadagnato l’appellativo di “carcere duro” per via di ulteriori restrizioni che esulano dallo scopo originario.