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di FRANCESCO MARULLO DI CONDOJANNI e GIULIA MERLO
Donna, avvocato, ebrea. Tre difficoltà quasi insuperabili nei primi decenni del novecento in cui il regime fascista preparava gradualmente ma inesorabilmente la svolta razzista.
Ecco perché la biografia di Amalia Fleischer, prima donna ad iscriversi all’albo degli avvocati di Bolzano, è la storia esemplare e commovente di una donna tenace, volitiva, combattiva e coraggiosa.
E’ ben noto quale scandalo suscitò la pretesa di alcune donne, all’alba del novecento, di esercitare il ministero forense. Dovettero superare ostilità preconcette e opposizioni tenaci espresse, anche attraverso ricorsi e sentenze contrarie, ma la determinazione di alcune di esse, veramente indomabili, come Lidia Poët, Teresa Labriola, Elisa Comani solo per citare alcune tra le più conosciute, vinse gradualmente ogni resistenza e finalmente la “milizia togata” e “l’arringo forense” aprirono le porte alle donne.
Ma alla conquista seguì la tremenda regressione delle novità legislative in materia di razza che culminarono nella normativa del 1939 in tema di esercizio delle professioni da parte dei cittadini di razza ebraica.
Donna avvocato di razza ebraica era Amalia Fleischer che il 19 Luglio 1935 scriveva così a chi aveva infine accolto la sua richiesta, dopo un lungo iter di approvazione: «Colgo l’occasione per porgere a questo Sindacato ( il sindacato fascista avvocati e procuratori di Bolzano, istituito nel 1933 dopo la soppressione degli Ordini professionali ndr) i sensi della mia più viva gratitudine per l’onore concessomi. Considero tale iscrizione come un encomio solenne attribuitomi, giacchè non si tratta della mera conferma dei sei anni di pratica di procuratore regolarmente conseguita, ma per le esplicite disposizioni della nostra legge professionale, di una formale attestazione che la sottoscritta ha tutti i requisiti morali e politici prescritti».
Nata nel 1885 a Vienna da Berthod, ebreo austriaco che fu console nei Paesi Bassi, e da Anna Mi- chalup, ebrea di Fiume, Amalia trascorre in Alto Adige gli anni duri della Prima Guerra Mondiale, seguendo il padre, nominato questore di Merano. Dal Sud Tirolo, poi, torna in Austria per gli studi e si laurea in filosofia – l’unica facoltà che all’epoca era accessibile anche alle donne – all’università di Innsbruck.
La sua vera passione, però, forse influenzata anche dal lavoro del padre, è il diritto: quando nel 1921 tutte le facoltà vengono aperte agli studi femminili, si immatricola all’università di giurisprudenza, prima a Innsbruck e poi alla Sapienza di Roma, laureandosi il 14 dicembre 1923 con una tesi dal titolo “Diritto ecclesiastico. Il Vicario Generale del Vescovo”.
In questi stessi anni di studi romani, Amalia, detta Melì ( poliglotta, parla tedesco, sua lingua madre, l’italiano, il francese e l’inglese) chiede e ottiene la cittadinanza italiana e lavora in Vaticano come archivista, convertendosi al cattolicesimo.
La sua scelta di intraprendere la professione forense matura intorno al 1925, anno di data del primo documento ufficiale contenuto nel suo fascicolo personale, tuttora conservato presso l’Ordine degli Avvocati di Bolzano. Si tratta, infatti, della richiesta ufficiale e scritta in lingua tedesca, indirizzata all’Ordine, in cui gli avvocati bolzanini Josef Reinisch e Pius Tessari chiedono che la ' Frau Dr. Amalia Fleischer' sia registrata come ' Konzipientin', ovvero come ' praticante avvocato' ( il termine è tutt’ora utilizzato in Austria per indicare i praticanti avvocati) presso il loro studio.
La richiesta suscita evidentemente stupore nei componenti dell’Ordine bolzanino, i quali sospendono la decisione e scrivono al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma e al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Trieste per conoscere il loro orientamento in merito alla registrazione delle donne: viste ' le norme e consuetudini così vigenti' chiedono se ' una dottoressa laureata in giurisprudenza possa essere ammessa alla pratica avvocatile e anche iscritta in albo di avvocati e procuratori'.
L’Ordine degli Avvocati di Roma risponde due settimane dopo, con una raccomandata a firma del vicepresidente, il quale conferma ( allegando copia della deliberazione) che ' questo Consiglio ha riconosciuto che le vigenti leggi non interdicono alle donne l’esercizio della professione di Avvocato' e che ' con deliberazione del 25 settembre 1919 ha iscritto nel proprio Albo la Dottoressa Teresa Labriola e successivamente ha ammesso alla pratica professionale le altre Dottoresse'.
In seguito a questo, dunque, l’Ordine di Bolzano, in data 2 aprile 1925, accoglie la richiesta presentata dai legali Reinisch e Tessadri e iscrive alla pratica forense la dottoressa Amalia Fleischer col numero di registro 392, a decorrere dalla data della prima missiva, il 5 marzo 1925. Nella delibera, inoltre, si specificano tutti gli accertamenti svolti per garantire la legittimità dell’iscrizione di una donna all’Albo.
Da questo momento, dunque, la dottoressa Fleischer è autorizzata ' alla rappresentanza dei signori dott. Reinisch e dott. Tessadri, giusta le norme degli articoli 15regolamento degli avvocati e 31 cod. P. Civile'.
Con qualche mese di ritardo, precisamente il 25 luglio 1925, arriva anche la risposta del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Trieste, il quale conferma di avere iscritto ' nell’Albo degli Aspiranti Avvocatili' anche dottoresse. Interessanti sono gli argomenti forniti dall’Ordine a fondamento della decisione: ' Il 29 Reg. Proc. Civile distingue espressamente le rappresentanze a mezzo di avvocati o a mezzo di altre persone e prescrive soltanto rispetto ai procuratori non avvocati che essi debbano essere di sesso maschile, facendo pure un’eccezione per il processo bagattellare. Questo disposto della legge è evidentemente basato sulla ragione che gli uomini hanno di regola maggior pratica di affari e possono più facilmente avere le attitudini richieste anche ad un profano nella trattazione delle cause. Trattandosi invece di persone che hanno una preparazione tecnica specifica per il fatto di aver assolto gli studi universitari e di aver conseguito la laurea in diritto nessuna distinzione può farsi ragionevolmente tra i due sessi, visto che anche le donne sono ammesse agli studi universitari che aprono le strade all’esercizio dell’avvocatura'.
Dopo aver dunque finalmente ottenuto l’iscrizione “all’albo degli Aspiranti Avvocatili”, nulla è dato sapere di come proceda la pratica di Amalia Fleischer, ma l’Ordine bolzanino conserva memoria della comunicazione, datata 12 agosto 1925, che Fleischer lascia lo studio Reinisch- Tessadri di Bolzano per trasferirsi a Merano, presso lo studio dell’avvocato Ludwig Baranek.
Dalle risultanze del suo fascicolo personale, Amalia Fleischer cambia dopo solo altri sei mesi non solo studio legale, ma anche città. L’avvocato del foro di Roma, Alfredo Tosatti, infatti, certifica ' ai fini dell’esame di procuratore', che la ' dott. Amalia Fleischer ha frequentato con assiduità e diligenza da fine gennaio 1926 al 1 febbraio 1927 il mio studio'.
Il ritorno a Merano dopo il soggiorno romano avviene nell’ottobre del 1927, quando Amalia Fleischer viene assunta presso lo studio Alliney e il titolare presenta a suo nome una richiesta di iscrizione al ' registro dei candidati all’avvocatura' e specifica ( forse temendo che l’Ordine sia ancora restio ad iscrivere dottoresse di sesso femminile) che ' non si tratta di neo- iscrizione, poichè la suddetta è stata iscritta sub fel. 392 registro dei candidati all’avvocatura, dell’allora camera degli avvocati di Bolzano dal 2 aprile 1925'.
Dopo due anni, il 30 agosto 1927, la stessa Fleischer indirizza all’Ordine una missiva in cui chiede di poter essere iscritta ' al registro dei candidati procuratori' come ' candidata procuratore presso il mio avvocato del foro di Bolzano ( Me- rano) ' ( si presume lo stesso avvocato Alliney) e allega, oltre al titolo di laurea in giurisprudenza, anche l’attestato di ' pratica giudiziaria' svolta nel ' R. ( Regio ndr) Tribunale di Trento dal 1 febbraio 1924 al 1 marzo 1925', che secondo la vigente normativa era obbligatorio ai fini dell’iscrizione.
Finalmente, il 16 agosto 1928, Amalia Fleischer può presentare richiesta di iscrizione all’albo dei procuratori, allegando il certificato di compiuta pratica. Il 6 settembre il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Trento, Giuseppe Stefenelli, le comunica il superamento dell’esame presso la Sezione di Corte di Appello di Trento.
Sono gli anni dell’ascesa del fascismo e anche la professione forense diventa via via sempre più permeata di obblighi di adesione al partito ( oltre che, sulla fine del 1928, l’obbligo in l’Alto Adige di redigere gli atti pubblici esclusivamente in lingua italiana). Nel fascicolo personale del procuratore Fleischer, dunque, è reperibile l’iscrizione al Sindacato Fascita Avvocati e Procuratori, datata 22 febbraio 1929.
Se già complessa era stata la sua iscrizione all’albo dei procuratori, più complicato ancora risulta l’iter di iscrizione all’albo degli avvocati. Fleischer presenta per la prima volta la domanda nel 1929, ma la Commissione Reale Straordinaria per il Collegio degli Avvocati di Bolzano la rigetta, con una stringatissima motivazione: ' La domanda stessa non è corredata dai prescritti documenti; ritenuto, oltre a ciò, che non sussistano le premesse di legge'.
Per i successivi sei anni, pur senza il titolo di avvocato, Fleischer continua ad esercitare la professione di procuratore presso studi legali prima di Merano e poi di Bolzano, e ripresenta domanda di iscrizione all’albo degli avvocati solo nel 1935.
A corredo della sua richiesta all’Ordine, specifica di ' esercitare la professione di procuratore legale da oltre 6 ( in lettere sei) anni', indica il numero di tessera 0228581 di iscrizione al Partito Nazionale Fascista e aggiunge alla documentazione anche la certificazione del C. F. P. A. ( Sindacato fascista procuratori avvocati) necessaria per chiedere l’iscrizione. Allega, inoltre, come era richiesto all’epoca, l’elenco delle cause trattate, a testimonianza della sua effettiva
Ipratica giudiziaria in ambito civilistico.
L’iscrizione all’Albo degli Avvocati è datata 13 luglio 1935, deliberata dal ' Direttorio' del sindacato fascista e proprio a questa comunicazione Amalia Fleischer fa seguito con la missiva in cui porge ' i sensi della mia più viva gratitudine per l’onore concessomi. Considero tale iscrizione come un encomio solenne attribuitomi'.
La storia di Amalia Fleischer si incrocia con quella dell’Italia, che proprio nel 1935 lancia la “chiamata alle armi” per la conquista dell’Etiopia. Il 2 ottobre di quell’anno Benito Mussolini pronuncia il suo discorso dal balcone di Piazza Venezia, chiamando all’adunata generale le forze del regime per sostenere l’impresa coloniale. La guerra, tuttavia, risulta ben presto più dispendiosa di quanto le casse statali, già provate dalla crisi economica mondiale, potessero permettersi.
Il Sindacato fascista lancia così la cosiddetta “Giornata della fede”: il 18 dicembre 1935 tutti gli italiani sono chiamati a donare alla patria le loro fedi nuziali per sostenere i costi della guerra in quella che è passata alla storia come la manifestazione dell’“oro alla patria”. A questa partecipa anche l’ormai “avvocatessa” Fleischer, che asseconda la richiesta del sindacato fascista e scrive: «Non ci voleva proprio la circolare sindacale per ricordarmi i miei doveri verso la Patria: sempre avevo e ho l’intenzione di dimostrare non con le parole, ma con i fatti con quanto senso del dovere desideravo ottemperare al richiamo. Non ho nessuna fede da offrire alla Patria, essendo nubile, ma tengo carissimo ricordo dei miei genitori, le loro fedi, le quali li accompagnarono per una lunga vita coniugale. Credo di agire secondo la volontà dei miei cari estinti se offro alla Patria le loro fedi, simboli delle loro virtù».
Si registra così una triste coincidenza: proprio il documento di consegna di due fedi di metallo a sostituzione delle due d’oro dei genitori donate alla Patria, è l’ultimo presente nel fascicolo di Amalia Fleischer e precede la sua formale richiesta di cancellazione dall’albo degli avvocati a causa delle intervenute leggi razziali.
Nel 1939, infatti, Fleischer comunica al Direttorio - come previsto dalle leggi razziali approvate nel 1938 - la sua origine familiare ebrea e, in seguito all’autodenun-cia, chiede contestualmente la cancellazione dall’albo. Per farlo, fa pervenire a Bolzano una lettera scritta a mano inviata da Faenza, dove nel frattempo si è trasferita: «La sottoscritta avv.
dott. Amalia Fleischer fu Bertoldo, fa domanda affinchè si voglia cancellare la sua iscrizione tanto all’albo degli avvocati, quanto a quello dei procuratori. Con la massima osservanza» .
Si chiude così l’esperienza di avvocato di Amalia Fleischer. Non può non constatarsi che finchè il fascismo non diventò apertamente razzista la qualifica di ebreo e la militanza fascista rimasero perfettamente compatibili. Poi, avvenuta la svolta razziale, tutto cambiò e per gli avvocati ebrei iniziò un periodo denso di incognite, sofferenze, e privazioni. E se anche coloro che avevano acquisito benemerenze dal regime e godettero della c. d. “discriminazione”, riuscirono con molte limitazioni a esercitare ancora il ministero forense, tutto alla fine precipitò e dopo il 1943 furono vittime di una vera e propria “caccia all’ebreo”.
Smessa dunque la professione forense con tanta fatica e pervicacia inseguita e praticata nonostante tutti gli ostacoli di ordine burocratico frappostisi, Amalia Fleischer è costretta a dimenticare la toga e a mantenersi nella sua nuova città d’adozione, Faenza, insegnando lingue al monastero di Santa Chiara. Fino al 1943, quando il ministero degli Interni emette l’ordinanza di cattura di tutti gli ebrei di età inferiore ai 70 anni.
E’ il 25 gennaio 1944 quando Amalia Fleischer, matricola 2643 nel carcere di Ravenna, viene caricata insieme ad altri 27 ebrei su un vagone bestiame: il treno la porterà prima a Milano, poi a Verona – lo stesso su cui si trovava anche l’allora tredicenne Liliana Segre, neosenatrice a vita – e, infine, ad Auschwitz. Si perdono lì, il 6 febbraio 1944, le tracce della prima avvocata del Sud Tirolo. Nulla si sa del suo esatto destino, solo che sparì dietro i cancelli del campo di concentramento.
Oggi il suo nome è inciso in una pietra d’inciampo a Faenza, nel monastero di Santa Chiara, dove visse a partire dal 1938 per sfuggire alla persecuzione delle leggi raziali e dove venne arrestata dai fascisti il 4 dicembre 1943, per essere poi deportata nel campo di concentramento di Auschwitz.
Dei lei rimangono il ricordo negli atti ufficiali del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bolzano, il testamento olografo redatto a Faenza, in cui lascia tutti i suoi beni al monastero di Faenza, e un ricordo tramandato oralmente: si racconta che, qualche tempo dopo la sua cattura, alle suore di Santa Chiara si presentò un ferroviere. Raccontò che un giorno si sentì chiamare da dentro il vagone di un treno da una voce di donna: «Mi chiamo Amalia Fleischer, per favore dica alle suore di Santa Chiara di Faenza che mi ha visto, che mi portano via. Me le saluti». Il suo nome, però, non è stato dimenticato: Faenza, la sua città adottiva, le ha intitolato la riva sinistra del lungofiume.
Pubblichiamo qui la ricerca biografica curata dal Cnf e pubblicata nel volume “Razza e inGiustizia”, redatto in coollaborazione da Cnf, Csm, Senato della repubblica e Unione delle Comunità Ebraiche Italiane