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Nel Palazzo di Giustizia di Torino è esposto un busto dell’avvocato Fulvio Croce, ucciso dalle Brigate rosse il 28 aprile 1977, realizzato da un altro avvocato, Fernando Delia, che oltre a dedicarsi con successo alla professione forense riusciva a plasmare la materia e a realizzare opere d’arte apprezzate in Italia e all’estero. Le sculture di Delia non passano inosservate.
I personaggi raffigurati sembrano lanciare, con il loro muto interagire e realismo, un messaggio all’umanità: non dimenticare. Questo messaggio è ancora attuale anche per quanto riguarda Fulvio Croce, indimenticabile presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino. Croce assunse nel 1968 la guida del Coa, dopo un’esperienza come consigliere e segretario. A riprova dell’ottimo lavoro svolto la carica di presidente venne conservata da Croce senza interruzioni per nove anni, fino al giorno del suo assassinio da parte di un commando del nucleo storico delle Brigate rosse.
Onorabilità, dedizione e senso di appartenenza all’avvocatura furono alcune qualità che contraddistinsero il lavoro di Fulvio Croce. Come presidente dell’Ordine, assunse la difesa d'ufficio dei brigatisti rossi nel processo di Torino, iniziato nel 1976, dove accadde un episodio mai verificatosi prima in Italia: tutti gli imputati detenuti revocarono il mandato ai loro difensori di fiducia e minacciarono di morte i legali nel caso di accettazione della nomina come difensori d’ufficio.
L’obiettivo era chiaro: privarsi della difesa per invalidare l’intero processo. Tra i brigatisti sotto processo Prospero Gallinari, Alberto Franceschini, Renato Curcio e Paolo Maurizio Ferrari. Quest’ultimo il giorno della prima udienza del processo, il 17 maggio 1976, lesse un comunicato. Parole deliranti scagliate come pietre non solo verso chi indossava la toga, ma anche all’intero Paese: «Ci proclamiamo pubblicamente militanti dell’organizzazione comunista Brigate rosse. E come combattenti comunisti ci assumiamo collettivamente e per intero la responsabilità politica di ogni sua iniziativa passata, presente e futura. Viene meno quindi ogni presupposto legale per questo processo. Gli imputati non hanno niente da cui difendersi, mentre al contrario gli accusatori hanno da difendere la pratica criminale antiproletaria dell’infame regime che essi rappresentano. Se difensori, dunque, devono esservi, questi servono a voi egregie eccellenze. Per togliere ogni equivoco revochiamo perciò ai nostri avvocati il mandato per la difesa e li invitiamo, nel caso fossero nominati d'ufficio, a rifiutare ogni collaborazione con il potere».
A seguito della revoca dei difensori di fiducia, il presidente della Corte d’Assise di Torino chiese all’Ordine degli avvocati alcuni nominativi di difensori d'ufficio per i brigatisti alla sbarra. Gli imputati dichiararono che non intendevano accettare neppure i difensori d’ufficio, minacciando estreme conseguenze. Constatate le difficoltà, venne incaricato per la difesa d’ufficio, dato che il codice di procedura penale dell’epoca lo prevedeva, direttamente il presidente del Coa torinese, Fulvio Croce, il quale non si sottrasse e accettò l’incarico. Scrisse così la sua condanna a morte. Croce fu ucciso in via Perrone il pomeriggio del 28 aprile 1977 da un gruppo armato composto da due uomini e una donna. Cinque colpi di pistola non gli diedero scampo. Croce, prima di essere colpito mortalmente, venne chiamato così dal killer: “Avvocato!”.
Nel giorno dell’anniversario della sua uccisione, la Fondazione Fulvio Croce dell’avvocatura torinese - composta da Enrico Maggiora (presidente) e dai consiglieri Simona Grabbi (presidente del Coa), Vittorio Maria Rossini, Tiziano Lucchese, Silvia Grosso, Claudio Strata e Arnaldo Narducci - ha ricordato il coraggioso presidente del Coa. «Fulvio Croce – si legge in una nota della Fondazione - pagò con la vita l’impegno a garantire il diritto alla difesa anche nei confronti di chi rifiutava di essere difeso e rappresenta una testimonianza luminosa del ruolo insostituibile dell’avvocato nella tutela dei diritti fondamentali.
In questi giorni è venuto a mancare uno degli imputati del processo del 1976, Alberto Franceschini, esponente delle Br. Una coincidenza che ci invita a riflettere sulla forza della giustizia che riesce a vincere la violenza più disumana e spietata. Oggi come allora, in ogni angolo del mondo, molti avvocati pagano un prezzo altissimo per il loro coraggioso impegno nella difesa dei diritti umani e delle libertà fondamentali. In molti Paesi, esercitare la professione forense significa rischiare intimidazioni, arresti arbitrari, violenze e perfino la vita stessa.
Gli avvocati iraniani, dopo aver difeso manifestanti o prigionieri politici, sono stati incarcerati senza giusto processo; gli avvocati in Turchia vengono perseguitati semplicemente per aver assistito imputati ritenuti scomodi dal potere politico; in Afghanistan, con il ritorno dei talebani, molte avvocate donne sono costrette alla clandestinità per continuare a esercitare o, più spesso, sono costrette a fuggire. A tutti loro, come alla memoria dell'avvocato Croce va il nostro pensiero più profondo e riconoscente. Difendere chi difende non è solo un gesto di solidarietà: è un dovere imprescindibile di ogni società che voglia definirsi veramente civile e democratica. La memoria si onora non solo nel ricordo, ma nell’impegno quotidiano» .