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Mario Draghi il liberista. Il profeta della concorrenza. Il teorico del dio-mercato. Può darsi lo sia stato. Ma ciò che conta è cosa sarà il suo governo. E rispetto alla dialettica fra concorrenza e dignità del lavoro, pesa moltissimo che nel suo governo ci sia un ministro del Lavoro come Andrea Orlando. Anche rispetto alle aspettative delle professioni.
Nella sorpresa almeno parziale per la compagine assai meno “tecnocratica” di quanto si immaginasse, la scelta del vicesegretario dem per il dicastero del Lavoro ha un suo particolare senso politico. Innanzitutto perché valorizza la vocazione sociale di quella sinistra che l’ex guardasigilli si è sforzato di rappresentare nel Pd. Ma anche perché Orlando, da ministro della Giustizia, era stato il padre dell’equo compenso per i professionisti. Il motore di una imprevedibile svolta, fortemente voluta dall’avvocatura istituzionale, dal Cnf e dal presidente Andrea Mascherin.
Quella legge, incorporata nella Manovra per il 2018, aveva riaperto la questione delle professioni e della loro dignità. Adesso torna con prepotenza nell’agenda del governo Draghi. Nel documento programmatico consegnato martedì da Zingaretti e dallo stesso Orlando all’ex governatore della Bce, si legge che, tra le priorità in materia di lavoro, dovrà esserci anche la «approvazione di una normativa per l’equo compenso e di un regime fiscale più equo per professionisti e partite Iva». Vuol dire che il Nazareno ha posto a Draghi, come nodo strutturale da risolvere, la condizione di sofferenza delle professioni, sia dal punto di vista della pressione impositiva sia rispetto ai compensi. Ha esplicitamente sollecitato il rafforzamento delle norme volute da Orlando e dal Cnf tre anni or sono.
Sotto l’impulso della massima istituzione dell’avvocatura, nel 2017 Orlando si era battuto perché fosse introdotto uno scudo economico, innanzitutto per la professione forense, poi esteso alle altre categorie ordinistiche. Una tutela che, pur senza riproporre le tariffe abolite da Bersani, prevedesse regole più chiare nella retribuzione degli incarichi conferiti dai committenti forti, ovvero banche, assicurazioni e grandi imprese.
È presto per sapere come si muoverà Orlando. Ma è certo che sull’equo compenso avrà un rapporto privilegiato innanzitutto con l’avvocatura, vista la sua pregressa esperienza a via Arenula. Una circostanza tutt’altro che ricorrente per i ministri del Lavoro. Quale margine gli sarà lasciato per rafforzare davvero la tutela retributiva dei professionisti è da vedere. Anche perché il vero nodo lasciato irrisolto dalla legge di fine 2017 riguarda gli incarichi e i compensi dovuti, agli avvocati e alle altre categorie, dalle pubbliche amministrazioni. Il che chiama evidentemente in gioco anche questioni di finanza pubblica.
Nel testo definito con il Consiglio nazionale forense, si riuscì a stabilire che la pubblica amministrazione «in attuazione dei principi di trasparenza, buon andamento ed efficacia delle proprie attività, garantisce il principio dell’equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti dopo la data di entrata in vigore della legge» . Formulazione abbastanza vulnerabile da aver consentito che persino i ministeri dell’Economia e dello Sviluppo economico violassero quel «principio» , con bandi a zero euro accompagnati da beffarde giustificazioni. Ad esempio, quella secondo cui gli incarichi che richiedono un apporto intellettuale elevato arricchiscono il curriculum del professionista, e tanto può bastare. Inutile dire che in molti Comuni il livello dei compensi previsto per gli incarichi a professionisti esterni ha risentito in modo assai limitato della riforma.
Le professioni pretendono ora di non essere più ingannate dagli enti pubblici. Lo hanno chiesto ad Alfonso Bonafede, successore di Orlando alla Giustizia e dunque ministro vigilante su molte categorie ordinistiche. A via Arenula era stato istituto un tavolo di confronto aperto a tutte le professioni per individuare le modifiche alla disciplina. Era stato affidato all’ex sottosegretario Jacopo Morrone: un leghista. Circostanza che ha bloccato il percorso dopo l’uscita del partito di Salvini dal governo. Nello stesso tempo Bonafede aveva avviato un monitoraggio sull’applicazione dell’equo compenso d’intesa con quello stesso Cnf da cui era venuta l’originaria sollecitazione a Orlando. Un modello che ha consentito di raccogliere le denunce delle violazioni, grazie alla rete costituita attraverso gli Ordini forensi territoriali. Nell’estate scorsa l’ormai ex guardasigilli aveva esteso lo screening territoriale alla “Rete delle professioni tecniche”, guidata dal presidente degli ingegneri Armando Zambrano.
È chiaro che il ruolo centrale vantato, in una riforma del genere, dall’avvocatura, continuerà a chiamare in causa anche il ministero della Giustizia, dunque una figura chiave del nuovo esecutivo quale sarà Marta Cartabia. Ma già con il Conte bis era emersa la necessità che il dicastero del Lavoro assumesse un’iniziativa. Prima che il vecchio governo entrasse nel loop della crisi, la ministra Nunzia Catalfo aveva assicurato di voler seguire il dossier. Si era impegnata a riguardo dopo l’intesa “volante” raggiunta sull’equo compenso da Matteo Salvini e Andrea Orlando, in occasione del “Festival” organizzato dai consulenti del lavoro. Il vicesegretario dem insomma ci pensava da mesi. Adesso questa partita, che il Pd rivendica tra le priorità, non potrà che essere innanzitutto sua.