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Stato-mafia
Era prevedibile. È bastato un titolo fuorviante del Fatto Quotidiano e Repubblica, strenui seguaci della tesi sulla trattativa, che i vari giornali – con il classico copia incolla - hanno a loro volta titolato la notizia della sentenza: «La trattativa Stato-mafia c’è stata, ma non costituisce reato». Addirittura c’è Marco Travaglio che si spinge oltre: «La sentenza d’appello sulla trattativa Stato-mafia conferma integralmente i fatti». La sentenza ha smantellato i fatti teorizzati dall'accusa Non serve essere un luminare della scienza e del diritto per capire che i fatti teorizzati dalla procura generale di Palermo sono stati smantellati per due banali motivi che si evincono dal dispositivo stesso: gli ex Ros , rapportandosi con Vito Ciancimino, non hanno veicolato alcuna minaccia al governo (questo il fatto che non costituisce reato) e l’ex senatore Marcello Dell’Utri non solo non ha commesso il reato, ma non ha nemmeno intrapreso alcun dialogo (il fatto) con la mafia per proseguire la trattativa. Solo questi due elementi fanno ben capire che i “fatti” ricostruiti dall’accusa non si sono mai verificati. Poi bisogna leggere le motivazioni del giudice Angelo Pellino per capire tutto il resto, come ad esempio ha valutato le testimonianze di alcuni pentiti, come inquadra la questione del medico Antonino Cinà. Nessuno di noi ha la sfera di cristallo. Eppure taluni giornalisti, danno per certo che la Corte ritenga vera la questione del papello. Non è corretto veicolare sui media un messaggio errato Legittimo difendere le proprie opinioni anche se le sentenze le sconfessano (a Il Dubbio lo facciamo spesso), ma disonesto se si piegano i fatti ad esse. Scorretto se addirittura si veicola un messaggio errato e pericoloso ai lettori, soprattutto nel momento in cui la fiducia nella magistratura è in fortissima crisi. Gli ex Ros i “colletti bianchi” li arrestavano Far intendere che la Corte abbia salvato i “colletti bianchi” e sacrificato i “poveri” sanguinari corleonesi, vuol dire sprofondare l’opinione pubblica nell’abisso più profondo dell’ignoranza. Partiamo da un fatto: a torto o a ragione, gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno sono proprio coloro che i “colletti bianchi” li mettevano dentro. Lo stesso ex ministro democristiano Calogero Mannino non li ama: infatti è stato il colonnello Mario Mori ad arrestarlo. La Corte d’Appello non ha salvato nessuno. Ha applicato il diritto e valutato le prove. Il capo d’imputazione è ben preciso. Non è la “trattativa” (che fortunatamente non costituisce reato, altrimenti possiamo dire addio alla lotta alla mafia o al terrorismo), ma “violenza o minaccia ad un Corpo politico”. Hanno analizzato uno per uno gli imputati e, secondo la lettura del dispositivo, la traccia che poi sarà argomentata nelle motivazioni è chiara. Punto primo. Mori e De Donno hanno avuto certamente un contatto con Vito Ciancimino. Cosa mai nascosta e riferita fin da subito alle autorità appena l’allora discusso Pietro Giammanco ha lasciato la procura palermitana. Il contatto prevedeva degli scambi: «Aiutaci a catturare i boss e noi ti trattiamo bene». Colui che avrebbe dovuto fare da tramite è il medico di Riina Antonino Cinà. Ecco la trattativa. La sentenza è chiara: la minaccia allo Stato è arrivata dalla mafia Il fatto è accaduto, ma da parte dei Ros non c’è stata alcuna minaccia al governo: non hanno fatto da tramite per veicolare la richiesta dei benefici della mafia. Chi è che allora ha minacciato il governo affinché lo Stato si piegasse alle loro richieste? Con la condanna di Leoluca Bagarella, la risposta è una sola: la mafia. Molto probabilmente il riferimento è al governo del 1993. Poi, sempre secondo la traccia del dispositivo, gli stessi mafiosi hanno “tentato” di minacciare (infatti qui la Corte riqualifica il reato) il governo Berlusconi. La minaccia non si è concretizzata, d’altronde furono catturati gli ultimi corleonesi stragisti (i fratelli Graviano) e la stagione delle bombe si concluse. Fin qui è ciò che si può trarre dal dispositivo. La trattativa teorizzata dall'accusa non ha avuto luogo La trattativa Stato-mafia, quella teorizzata dalla pubblica accusa, non ha avuto luogo. Quella dei Ros fu un “colloquio investigativo”. Sintetizziamo i fatti del teorema giudiziario narrato. Particolare rilievo rivestirebbero le circostanze che hanno portato alla cattura di Riina (15 gennaio 1993) e la presunta trattativa che l’avrebbe resa possibile e che, con la intermediazione di Vito Ciancimino, sarebbe intervenuta fra l’allora colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, da una parte, e Bernardo Provenzano, dall’altra. Tale trattativa, di cui sarebbero stati mandanti e garanti esponenti politici e delle Istituzioni, sarebbe sfociata nell’accordo che, in cambio della collaborazione alla cattura di Riina e alla cessazione delle stragi mafiose, avrebbe assicurato a Provenzano una sorta di immunità. In seguito, la trattativa sarebbe proseguita e avrebbe indotto, nel corso del 1993, anche alcuni cedimenti sul piano del rigore penitenziario fino a proseguire nel ’94. La vicenda Prvenzano è stata chiarita dal processo Mori Obinu La vicenda Provenzano è chiarita dal processo Mori Obinu: non c’è stata alcuna mancata cattura, nessun patto sporco. Il cedimento dello Stato del rigore penitenziario non c’è mai stato, casomai rafforzato. Il contatto Ros–Ciancimino c’è stato e non costituisce reato. Del resto – come aveva spiegato molto bene la sentenza Mori Obinu –, «stante quella drammatica situazione della primavera/estate del 1992, che necessariamente si caratterizzava proprio per la menzionata strategia stragista intrapresa da Cosa Nostra, è evidente che qualunque approccio investigativo che avesse avuto di mira i vertici della organizzazione mafiosa non poteva che essere particolarmente pungolato dalla impellente necessità di mettere fine alle stragi». Ecco, questo è il fatto che avvenuto, ma non punito dalla Corte attuale; i Ros non hanno veicolato alcuna minaccia al governo. In poche parole: il teorema trattativa Stato-mafia è pura castroneria.