Da Capaci alle stragi del ’93: così Matteo Messina Denaro entrò nella gotha di Cosa nostra
la Corte d’Assise di Caltanissetta, ha condannato all’ergastolo il boss latitante Matteo Messina Denaro per le stragi del 1992 di Capaci e di Via D’Amelio nelle quali persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli agenti delle loro scorte.
Dopo una camera di consiglio durata 14 ore, alla mezzanotte di ieri è arrivato il verdetto di condanna per Matteo Messina Denaro, dichiarato colpevole di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, dove persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il super latitante è condannato all’ergastolo, con isolamento diurno di 18 mesi. Non solo. Oltre alle spese processuali e al risarcimento, dovrà pagare la pubblicazione della sentenza di condanna sul sito del ministero della giustizia.La condanna emessa dalla corte d’assise di Caltanissetta presieduta da Roberta Serio, è quella che chiedeva il procuratore aggiunto Gabriele Paci. Un processo voluto da lui stesso, dopo aver raccolto tutti i tasselli di un quadro complesso. Sì, perché molto si è fatto nell'ambito della complessa attività di ricostruzione della strage di Capaci e via D'Amelio grazie al lavoro investigativo condotto dalla DDA di Caltanissetta incessantemente volto alla ricerca di tasselli da inserire nel quadro di sangue che ha tragicamente segnato la coscienza di tutti. In tale contesto la Procura di Caltanissetta è giunta ad attenzionare la figura di Matteo Messina Denaro rimasto fino a poco tempo fa estraneo ai processi nei confronti di mandanti ed esecutori delle stragi siciliane del '92. Da ricordare che il latitante è stato già figura centrale nel processo svoltosi avanti la Corte d'Assise di Firenze ed avente ad oggetto gli attentati stragisti commessi da Cosa nostra "nel continente" tra il '93 ed il '94, all'esito del quale venne condannato all'ergastolo per i reati di strage, devastazione ed altro. La partecipazione di Matteo Messina Denaro alle stragi. La Procura di Caltanissetta, procedendo ad una attenta rilettura degli atti processuali, ha rielaborato il complessivo materiale probatorio stratificatosi nel corso dei vari giudizi celebratisi a carico degli attori degli eventi delittuosi riconducibili alla strategia stragista attuata da Cosa nostra tra il '92 ed i primi mesi del '94 e, all'esito di tale approfondimento, è giunta a formulare l’accusa che l’ha portato a processo. Si è così potuta ricostruire la vicenda. In rappresentanza della provincia di Trapani, l’attuale super latitante è stato designato da Totò Riina - a seguito del progressivo aggravarsi delle condizioni di salute del padre, Francesco Messina Denaro, storico uomo d’onore trapanese, rappresentante della provincia di Trapani oltre che del mandamento di Castelvetrano - a svolgere le funzioni di "reggente" della provincia sin dai tempi della guerra di mafia di Partanna deflagrata nell'87 e conclusasi nel '91, e dunque ben prima della consumazione degli eventi stragisti del '92. Denaro ha quindi partecipato alla decisione di "dichiarare guerra" allo Stato, assunta tra la fine del '91 e l'inizio del '92 dalla Commissione Regionale di Cosa Nostra, organo deliberativo di vertice dell'organizzazione. Ha aderito, fin dall’inizio, all’attuazione del piano inziale tramite un gruppo "riservato" creato da Riina ed alle sue dirette dipendenze incaricato di uccidere Falcone e Borsellino in altri territori. Sì, perché inizialmente volevano uccidere Falcone a Roma ( e Matteo Messina Denaro aveva il suo uomo di fiducia nell’operazione, tale Antonio Scarano), così come volevano uccidere Borsellino quando già era procuratore di Marsala, territorio dove appunto operava Matteo Messina Denaro. Un attentato, quest’ultimo, mai eseguito perché si rifiutarono i due marsalesi poi uccisi da Riina proprio perché si erano opposti all’ordine.
La decisione di uccidere Paolo Borsellino.
Matteo Messina Denaro era un referente importante di Totò Riina anche per la gestione degli appalti, tutto ciò è riscontrato anche dalle deposizioni del pentito Vincenzo Sinacori dove ha fatto i nomi delle aziende coinvolte, compreso i nomi come Angelo Siino, il cosiddetto “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina, e Giuseppe Lipari, colui che curava gli appalti per conto di Provenzano. E proprio secondo l’impostazione accusatoria, il progetto di uccidere Borsellino è stato prospettato da Riina a Matteo Messina Denaro sulla base degli stessi presupposti già evidenziati in relazione alla strage di Capaci. Trova la sua matrice principale nell’indubbia carica simbolica che la figura del magistrato rivestiva al tempo per Cosa nostra avendo quest’ultimo già dalla fine dell'86, anno in cui prestava servizio presso la Procura di Marsala, dimostrato la tempra di magistrato che con ostinazione continuava ad applicare gli stessi penetranti metodi investigativi già sperimentati ai tempi in cui, insieme a Falcone , era stato componente del pool dell'Ufficio Istruzione di Palermo. Ma il punto cruciale è che nella sua sede giudiziaria di Marsala, aveva condotto indagini importanti sulle connessioni tra interessi criminali, appalti e politica. Come già evidenziato nell'ordinanza cautelare emessa nel procedimento Borsellino quater, i due sostituti che ebbero a lavorare con lui a Trapani, la dottoressa Camassa ed il dottor Russo, incontrarono Borsellino a Palermo nel giugno del 1992, dunque dopo pochissimi mesi dal suo arrivo alla Procura di Palermo, e lo trovarono particolarmente turbato. Come ha sottolineato anche l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Matteo Messina Denaro, nello stesso periodo Borsellino aveva sollecitato un incontro con i vertici del Ros per discutere del rapporto mafia appalti. Non solo, viene ricordato che il collaboratore Antonino Giuffrè ha riferito che i timori di "cosa nostra" erano legati non solo alla possibilità che Borsellino venisse ad assumere la Direzione Nazionale Antimafia, ma soprattutto alla pericolosità delle indagini che avrebbe potuto svolgere in materia di mafia appalti. A ciò si aggiunge il fatto – come ha sottolineato il Gip che ha accolto la richiesta dell’accusa nei confronti di Matteo Messina Denaro- che Borsellino aveva manifestato, non solo con dichiarazioni pubbliche, ma anche e soprattutto con concrete attività requirenti, di avere acquisito una più chiara visione delle connessioni tra gli ambienti mafiosi di livello militare e la più vasta rete di interessi politici e affaristici, sino ad allora sapientemente mimetizzati nella pieghe della società civile. Con i suoi comportamenti e le sue pubbliche dichiarazioni, Borsellino – come si legge nell’ordinanza – «aveva chiaramente espresso la sua volontà dì investigare, scoprire e colpire questi interessi ed i soggetti che se ne facevano portatori e che egli riteneva corresponsabili della strage di Capaci, in cui perse la vita fra gli altri l'amico Giovanni Falcone». Come detto, era stato progettato di uccidere Borsellino già a Marsala, territorio di Matteo Messina Denaro. Fallito però per il diniego dei due boss Vincenzo D’ Amico e Francesco Caprarotta e, come detto, ciò comportò la loro eliminazione grazie al benestare di Matteo Messina Denaro. Il protagonismo nel progetto dell’eliminazione del giudice a Marsala rende evidente, anche alla luce della sua totale adesione al piano ideato da Riina, il suo coinvolgimento nella rinnovata volontà di uccidere Borsellino. Da ricordare che quest’ultimo riteneva importanti le indagini marsalesi sugli appalti, tanto da chiedere del perché – come si evince dalle audizioni al Csm pubblicate da Il Dubbio - tali indagini non fossero confluite nel procedimento mafia appalti curato dalla procura di Palermo. Ci riferiamo alla riunione del 14 luglio 1992. L’ultima alla quale partecipò Paolo Borsellino.