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Quando frequentavo conservatorio, l'esame che ho detestato più di tutti gli altri è stato senza ombra di dubbio quello per conseguire la licenza di solfeggio. Si tratta si una materia il cui fondamento è leggere, si badi bene non cantare ma proprio declamare, ad alta voce note da spartiti complicatissimi, pensati con l'unico scopo mettere in difficoltà l'esaminando e senza alcuna relazione con la musica reale che poi si andrà a suonare. A riprova di questa affermazione è bene sapere che nei paesi con le migliori orchestre del mondo (penso alla Germania, l'Austria e i paesi anglosassoni) questa materia non è presente nei corsi di studio, anche perché i nomi delle note cono quelli della notazione di Boezio (A, B, C, D, E ,F e G) e non derivano come da noi dalle prime sillabe degli emistichi dell'inno dei Vespri per la natività di San Giovanni Battista scritto da Paolo Diacono e utilizzati da Guido d'Arezzo. UT queant laxis, REsonare fibris, MIra gestorum, FAmoli tuorum, SOLve polluti, LAbii reatum, sancte Johannes. Da tale criterio derivano i nomi delle note (con l'Ut cambiato in Do proprio per favorire la triste pratica di cui sopra). Il premio per il testo più complicato per conseguire questa licenza, a mio avviso andava assolutamente assegnato ai «dodici temi manoscritti per l'esame di solfeggio» di Letterio Ciriaco in cui erano riportate le prove date dal Ciriaco nel corso della sua carriera. Mi ricordo ancora vividamente il fatto che ogni prova recasse la data di quando era stata usata. Molti di questi astrusi spartiti erano stati dati per gli esami in pieno tempo di guerra o sotto l'occupazione nazista. Suonando il contrabbasso che, a causa delle sue dimensioni è uno strumento che si inizia a praticare già da grandi, avevo la fortuna di avere già intorno ai vent'anni, ma l'età per cui è previsto il conseguimento della licenza è di tredici insieme alla licenza media e quindi, mentre in modalità studente oppositivo studiavo per quell'esame, non potevo far a meno di farmi qualche domanda sulla natura demoniaca del Ciriaco, immaginandolo con l'aria compiaciuta di chi vuole formare le giovani generazioni alle asperità della vita, Assegnare questi testi complicatissimi a virgulti tredicenni che pativano freddo e fame, con i genitori impegnati a procurarsi cibo alla borsa nera e comunque a sopravvivere in quella situazione. Tutto ciò mi ritorna in mente in questi giorni di quarantena in cui i miei figli, per altro titolari di un percorso scolastico già molto più brillante di quello paterno, si cimentano nella didattica a distanza. Sono persuaso dell'importanza della prosecuzione del percorso formativo, sia per la loro crescita che per tenerli impegnati in questi assurdi giorni in cui dobbiamo convivere in quattro in sessanta metri quadrati. Però se da un lato fanno davvero tenerezza alcuni professori che si sforzano, in assenza di direttive e criteri chiari dal ministero, combattere con Skype, Zoom o altre piattaforme, mentre gli studenti fanno il loro lavoro burlandosi dei docenti scambiandosi messaggi su altre piattaforme, dall'altro però certi atteggiamenti sempre più frequenti in questi giorni di clausura fanno riemergere prepotentemente la mia natura di studente oppositivo. Che senso ha infatti dare un "2" per un compito consegnato in ritardo o per un esercizio svolto in modo approssimativo? Che senso ha punire gli studenti come se stessimo vivendo una situazione normale e non una crisi sociale che in molti paragonano a una guerra? Non è affatto facile organizzarsi e svolgere le proprie attività quando magari si condivide in 4, 5 persone uno spazio di 50 metri quadri. Anzi, in alcuni casi si può tramutare in un incubo. L'intransigenza verso gli studenti sta rendendo inutilmente isterici una generazione di adolescenti compressi tra scadenze che non sempre coincidono tra gruppi Whatsapp e registro elettronico. Non lo so, nel mio mondo immaginario ritengo che forse un briciolo di empatia in più e qualche voto in meno da parte di alcuni docenti, non guasterebbe visto che stiamo vivendo una crisi mondiale che non ha alcun precedente nelle vite nostre, ma soprattutto nelle loro. Quando poi saranno adulti cosa ricorderanno di questa esperienza? Non credo che la cifra di questo periodo sarà per loro sarò la, pur doverosa, offerta della didattica a distanza. Me li immagino riflettere, scrivere romanzi o film, in cui ricorderanno l'isolamento, le dinamiche familiari. Ed è un vero peccato che, vessati dall'ossessione del giudizio, non abbiano un po' di tempo per ragionare sui cambiamenti che questo stato comporta, che non riescano a trovare il tempo per coltivare le loro passioni che forse potrebbero alleggerire un po' la loro condizione. Non per sminuire un lavoro complicato, ma penso che forse oltre al necessario proseguimento della didattica, dei suoi riti e delle sue peculiarità, bisognerebbe trovare schemi alternativi. In fondo è già da tempo che si ragiona sulla possibilità di creare sistemi scolastici che non si avvalgano di voti per giudicare gli studenti e alcune realtà che adottano questo criterio, specie nei paesi del nord Europa ma non solo, sono considerate delle vere eccellenze. Magari questo periodo potrebbe servire per svecchiare e ripensare il mondo in cui viviamo. In fondo abbiamo visto come ai tempi del coronavirus sia possibile lavorare da casa evitando di intasare le strade delle nostre città e conseguentemente ridurre l'inquinamento. Come sia possibile fare una fila mantenendo una distanza adeguata senza litigare e prendere una ricetta dal medico direttamente sul proprio telefono senza dover chiedere un giorno di permesso. E soprattutto, cosa inaudita fino a tre settimane fa, fare debito per sostenere la sanità pubblica. Questo articolo non vuole essere un apologia del sei politico o sminuire i generosi tentativi dei docenti di riportare gli allievi a una normalità, ma un semplice invito ad agevolare i ragazzi a fare riflessioni sul presente senza rendere ancor più difficile una situazione che già è complicata.