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«Si trasmette in allegato il verbale di scarcerazione di... », e in bella mostra il nome dell’ex detenuto, firmato: Carabinieri di Treviso. O ancora, un atto della cancelleria che certifica la mancata accettazione dell’eredità con beneficio di inventario a nome di un defunto, con tutte le generalità. Comunicazioni e atti, solo alcuni dei tanti che si trovano se si rovista un poco, spuntano dal bidone giallo della carta del tribunale di Treviso. Atti di parte, ordinanze di scarcerazione e comunicazioni riservate tra procura e forze dell’ordine: tutto gettato come semplice carta straccia e affastellato nei cassonetti della raccolta differenziata. Ma soprattutto, ogni documento è facilmente accessibile da chiunque, perché i bidoni assegnati al Tribunale per la raccolta porta a porta sono collocati sulla pubblica via, spesso stracolmi e non sempre chiusi a chiave.
In altre parole: nessuna riservatezza delle informazioni giudiziarie, nessuna sicurezza contro accessi non autorizzati o i trattamenti non consentiti. La gestione dei rifiuti contenenti dati sensibili avviene, infatti, in maniera non conforme alle disposizione del codice della privacy, che impone anche alle amministrazioni pubbliche precise regole per la custodia e per la distruzione e lo smaltimento dei supporti cartacei o informatici su cui sono conservati dati personali. Per eliminare documenti di questo genere, infatti, il passaggio minimo dovrebbe essere la distruzione con un apparecchio trita- documenti in modo da renderli quantomeno illeggibili, come previsto dall’allegato B della normativa: «I supporti rimovibili contenenti dati sensibili o giudiziari se non utilizzati sono distrutti o resi inutilizzabili, ovvero possono essere riutilizzati da altri incaricati, non autorizzati al trattamento degli stessi dati, se le informazioni precedentemente in essi contenute non sono intelligibili e tecnicamente in alcun altro modo ricostruibili». Non solo, la Din 32757- 1 ( la nuova normativa a livello europeo sulla classificazione e distruzione dei documenti contenenti dati sensibili) prevede l’utilizzo di «macchine per ufficio- distruzione di supporti di informazione», i loro requisiti e dettaglia la procedura al punto da stabilire la larghezza millimetrica delle strisce di carta in cui ridurre i documenti, a seconda del regime di segretezza.
Nulla di tutto ciò avviene nel palazzo di Giustizia di Treviso, dove chiunque può recuperare dall’immondizia atti giudiziari, per di più risalenti a pochi mesi prima ( alcuni tra quelli rinvenuti sono datati 2017) e venire a conoscenza di fatti giudiziari riservati e soprattutto recenti. Si può presumere ( anche se le foto che pubblichiamo lasciano spazio a qualche dubbio) che finisca nei cassonetti con queste modalità documentazione cestinata dagli addetti alle Cancellerie. Per fascicoli sia civili che penali e atti dell’ufficio, infatti, la normativa di riferimento prevederebbe specifici metodi di conservazione e, per documenti diversi rispetto ai fascicoli, tempi di conservazione in archivio mai inferiore ai 5 anni ( secondo le linee guida prodotte da alcune Corti d’Appello). Almeno in teoria, quindi, i tribunali dovrebbero conservare tutto nell’archivio generale e avrebbero bisogno di autorizzazioni specifiche per la loro distruzione.
A riprova della rilevanza delle procedure di smaltimento di qualsiasi atto giudiziario, la legge dispone che esse gravino non solo solo sulla pubblica amministrazione, ma anche sui privati e le aziende che trattano dati personali, avvocati compresi. I professionisti come le amministrazioni giudiziarie - sono tenuti infatti ad un procedimento certificato per il macero dei vecchi fascicoli, conservati nel loro archivio privato per dieci anni e poi smaltiti attraverso società dedicate, che rilasciano la dichiarazione di avvenuta distruzione conforme alle previsioni di legge e costano ad uno studio legale circa 10 euro ogni 100 chili di carta. E’ facile intuire la rilevanza di queste previsioni a tutela della riservatezza dei cittadini: gli atti giudiziari, siano essi di parte o anche comunicazioni interne, contengono una miriade di informazioni sensibili: il nome della parte, i suoi dati anagrafici ma anche dettagli privati della vita e delle abitudini, oltre all’esito di procedimenti giudiziari. Eppure, sembra che tutto questo a Treviso non rilevi.