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Noa si è tolta la vita a 17 anni. Era una ragazza carina che aveva il diritto di sperare tutto dalla vita. Invece prima ancora di iniziarla, la vita, è stata violentata due volte. Hanno spento il suo sorriso e le hanno tolto la voglia di vivere. Alla fine si è lasciata morire di fame. E’ successo in Olanda e, siccome in Olanda c’è una legge molto liberale sulla eutanasia, subito molti hanno pensato che si trattasse di un caso di eutanasia. Invece pare di no. Anche una legge liberale come quella olandese non accetta di fare morire una ragazza di 17 anni, che non soffre di nessuna malattia mortale o invalidante. Nessuna salvo una: la depressione, che è oggi probabilmente la principale causa di sofferenza nei paesi cosiddetti “avanzati”.
Sarebbe interessante sapere quanti drammi simili si consumano in Italia, più o meno nel silenzio. Quante ragazze muoiono ogni anno di anoressia nel nostro paese? Quali sono i sostegni che la società offre a chi soffre di questa terribile malattia? Che facciamo per accompagnare e sostenere le famiglie che devono far fronte a questa infermità? Dalla depressione come dalla anoressia si può guarire o almeno si può imparare a conviverci. Sembra addirittura che essa possa stimolare, in quelli che la superano, una particolare creatività. Servono però terapie specialistiche e la compagnia di un contesto sociale tollerante ed amico. Noi siamo materialisti: siamo abituati a prendere sul serio le malattie del corpo e trascuriamo drammaticamente le malattie dell’anima, come se non fossero altrettanto reali e capaci di infliggere sofferenza e morte.
Se Noa fosse stata di qualche anno più vecchia la legge olandese le avrebbe offerto la eutanasia. E’ più facile e meno costoso sbarazzarsi dei depressi piuttosto che aiutarli a guarire. Del resto anche quelli che chiedono la eutanasia adducendo come causa una malattia fisica soffrono per lo più anche di depressione ed è probabilmente la depressione la causa vera del loro desiderio di morire. Ma vogliono davvero morire? O forse semplicemente non riescono più a vivere così e nessuno è capace di offrire loro un altro modo di vivere, un’altra vita? Non sto pensando alle famiglie, che spesso fanno tutto quello che possono e lottano disperatamente fino alla fine. Non penso neppure solo alla assistenza sanitaria pubblica, che pure spesso è carente o inadeguata. Penso ad un clima culturale generale, un modo di essere e di vivere che tutti in qualche misura condividiamo, quello che Hegel chiama lo Spirito del Tempo.
Nel mondo di oggi sembra che ognuno appartenga solo a se stesso ed anzi rivendica orgogliosamente il diritto di appartenere solo a se stesso e di escludere tutti gli altri dalla sua vita. “Io sono mia” gridavano una volta le femministe, ed i maschi non pensavano in modo diverso. Così anche Noa ha deciso per se stessa. Io però mi domando se sia davvero giusto così. E se il diritto di appartenere solo a se stessi si dovesse poi pagare con il diritto di tutti gli altri a lasciarci soli, a non assumere nessuna responsabilità per noi nell’ora del bisogno? Così si cresce fragili e narcisisti e quando la vita ci ferisce non sappiamo curarci da soli e nessuno ci cura.
E se nel cuore di ciascuno ci fosse invece un desiderio originario di non essere soli, di appartenere a qualcun altro come se questo appartenere a qualcun altro fosse la condizione necessaria per essere davvero se stessi? I migliori sociologi europei, come Margaret Archer o Pier Paolo Donati ci dicono che l’uomo è, fondamentalmente, una relazione. Si cresce e si matura assumendo liberamente una relazione, impegnandosi in una fedeltà a qualcuno di cui ci importa ed a cui importa di noi. Un filosofo francese oggi quasi dimenticato, Gabriel Marcel, ha scritto una volta che amare significa dire all’altro: tu non devi morire. Nella società senza legami, o dei legami fragili e provvisori, è difficile nel momento del bisogno trovare chi ci dica queste parole. E se anche qualcuno, un padre o una madre, ce le dice è difficile ritrovare in noi stessi l’energia per crederci, per aggrapparsi a quelle parole per rientrare con esse nel mondo della vita.
Spero che la vicenda di Noa non dia vita ad uno sterile dibattito sulla eutanasia. Mi auguro che induca tutti noi ad abbandonare troppo facili certezze per confrontarci con la esperienza terribile del dolore che toglie gusto alle cose ed induce a cercare la morte. Quelli che difendono la vita (e io sono fra di loro) dovrebbero domandarsi quanto sia terribile la sofferenza che induce a chiedere di porre fine alla vita e se si possa condannare chi ad essa sceglie di porre fine. I difensori della libertà di scelta dovrebbero domandarsi se sia davvero libera quella scelta o se essa non sia infine una resa davanti a un potere oscuro che andrebbe combattuto piuttosto che secondato. Tutti insieme dovremmo domandarci cosa possiamo fare per essere davvero vicini ai depressi ed alle loro famiglie e per dare loro il sostegno medico e umano di cui hanno bisogno. E dovremmo anche chiederci se non vi sia qualcosa di profondamente sbagliato in una società in cui cresce il desiderio di morire piuttosto che di vivere.