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La mascotte, il lupacchiotto Vucko, si vede ancora in qualche graffito scrostato nella periferia della città e i venditori di souvenir offrono le spillette originali ai turisti per cinque euro l’una, oppure dieci marchi bosniaci.
Trentacinque anni fa, il lupo delle alpi dinariche è stato il simbolo delle Olimpiadi invernali di Sarajevo ‘ 84, le prime organizzate in un paese comunista e pensate da Tito per mostrare lo splendore della Jugoslavia. La candidatura della città si concretizza nel 1978, con la sconfitta della giapponese Sapporo, e il Maresciallo punta a farne l’evento vetrina di un intero paese. Ancora oggi, quelle settimane di festa sono ricordate come il “magico febbraio”: Tito morì quattro anni prima, nel 1980, ma nel 1984 Sarajevo era pronta ad ospitare l’Olimpiade invernale con il massimo numero di partecipanti fino ad allora, offrendo il meglio che la città avesse a disposizione. La neve non era un problema: in inverno si raggiungevano senza difficoltà i meno venti gradi e gli impianti piste da sci, cabinovie di risalita, trampolini e piste di pattinaggio erano il meglio a disposizione sul mercato. Il vero guaio era la nebbia, che poteva impedire l’atterraggio dei voli internazionali dell'aeroporto locale. Per questo, gli ingegneri avevano preparato delle sostanze chimiche da sparare in cielo per dissolvere i banchi di foschia.
Oggi, di quel magico febbraio, rimangono macerie sulle montagne ed edifici ormai indistinguibili dagli altri, nella distesa di palazzi in stile socialista lungo la Zmaja od Bosne, che durante l’assedio della città cambiò nome in “viale dei cecchini”.
Ad accogliere chi arriva da sud compaiono i palazzi di quello che oggi è il quartiere di Mojmilo e nel 1984 era il villaggio olimpico.
Perfettamente mimetizzati nello svettare delle strutture a nido d’ape socialiste, gli appartamenti fatti costruire per gli atleti vennero poi distribuiti gratuitamente, come premio di Stato, a laureati e alti funzionari. «Il giorno in cui si è laureato in giurisprudenza, a mio padre è stato messo in mano un mazzo di chiavi di uno di quegli appartamenti», racconta Alen, trent’anni, che in estate organizza tour turistici e d’inverno fa il maestro di sci sulle stesse montagne delle Olimpiadi. La sua famiglia è stata tra le prime a venire sfollate, durante l’assedio: viveva nella zona ovest di Sarajevo, subito occupata dai serbo- bosniaci, e lui ha vissuto per i quattro anni di assedio in uno scantinato con altre sette famiglie, profugo di guerra nella sua stessa città. «La mattina si tenne una manifestazione davanti al palazzo del governo, in cui i cittadini chiedevano se davvero la città sarebbe finita sotto assedio. Quella stessa notte, serbo- bosniache di Ratko Mladic scesero dalle montagne e sfollarono il quartiere dove vivevo. Si presentarono con un altoparlante e ci dissero di uscire di casa, poi formarono due gruppi: uno di serbi, un altro di non serbi». Lui e la sua famiglia - padre avvocato di religione musulmana, lui di quattro anni e la madre che aveva da poco partorito la sorella - erano tra i non serbi. «Ci dissero di portare con noi lo stretto indispensabile e di farci trovare pronti alle sei del mattino, perchè sarebbero arrivati dei pullman per uno scambio: noi in cambio di altrettanti serbi, provenienti dal centro città», racconta Alen, che ricorda quella notte e la fuga che seguì. «Era il 1992 e mio padre reagì come avrebbe fatto chiunque: chiamò la polizia. Loro gli dissero di prendere la sua famiglia e scappare, perchè quei pullman non ci avrebbero portato a Sarajevo centro, ma ad un campo di concentramento già costruito a Sarajevo est». Così, alle tre di notte, la famiglia fuggì, superando il ponte sul fiume Miljacka.
«Da quel momento in poi, ovunque si andasse, bisognava farlo correndo», Alen ripete le parole del padre, oggi sessantenne, che durante la guerra entrò a fare parte della guerriglia di difesa della città e, per provvedere alla famiglia, correva sfidando i cecchini per arrivare al tunnel sotterraneo di 800 metri, che passava sotto l’aeroporto controllato dalle Nazioni Unite fino alla zona libera, dove recuperava medicine, armi e provviste. «Era l’unica sottile vena di approvvigionamento della città», in cui per tutti i 1452 giorni di assedio mancarono luce, acqua corrente e gas. Da quel passaggio scavato in segreto dai bosniaci, Sarajevo rimaneva flebilmente attaccata al mondo.
Proprio i palazzi olimpici e tutti i condomini di cemento in stile sovietico sono stati la vera protezione dei civili, tra il 1992 e il 1995: erano gli unici con pareti abbastanza spesse da resistere ai colpi di mortaio sparati dalle montagne, molto meglio degli edifici ottocenteschi che sono il cuore della città e degli edifici della città vecchia, vicino al mercato e alla grande moschea. Oggi, quegli stessi palazzi sono ancora in piedi ma le pareti rimangono crivellate di colpi. «I mattoni rossi sulle facciate sono i punti in cui i colpi hanno distrutto le pareti ed è stato necessario ricostruirle», spiega Alen, mentre percorriamo l’arteria centrale della città, che la taglia a metà da est a ovest e corre parallela alle rotaie del tram, fatte posare per le Olimpiadi e ancora oggi mezzo principale di trasporto per i pendolari. Lungo quella stessa strada, sulla destra, sfilano l’ambasciata americana accanto all’università di Sarajevo, presidiata da una statua di Tito, poi l’Holiday Inn di colore giallo brillante che era terreno franco per i giornalisti durante l’assedio e infine la sede della radio- televisione pubblica, che gli abitanti difesero dagli attacchi perchè il mondo continuasse a poter vedere che cosa stava succedendo. A ventitrè anni di distanza dalla fine dei combattimenti, i palazzi sono stati ricostruiti, ma i segni dei bombardamenti rimangono ancora visibili.
Cercare oggi quel che resta di Sarajevo ‘ 84, quando la Jugoslavia era ancora una repubblica socialista federale di sei stati e la città non era stata devastata dall’assedio, significa raggiungere due monti, l’Igman e il Trebevic. Uno accanto all’altro, sono però divisi da un confine interno: quello che divide la Bosnia ed Erzegovina dalla repubblica Srpska. Formalmente, entrambi nello stato bosniaco, di fatto due territori divisi: europeista e di etnia mista uno, filorusso e a prevalenza serbo l’altro.
Per arrivare sul monte Trebevic si percorre fino in fondo la Zmaja od Bosne, si superano i resti delle fabbriche bombardate e mai rimesse in funzione, poi l’aeroporto internazionale che durante l’assedio venne occupato dalle Nazioni Unite, si attraversa Sarajevo est ( città autonoma a livello amministrativo da Sarajevo, da cui la separa una cinta montuosa e l’aeroporto) e si percorre la strada dissestata che porta fino ai 1600 metri del monte Trebevic, polmone verde che sovrasta la città. Mangiata dalla foresta ma perfettamente visibile nella sua struttura di calcestruzzo e isolante ormai marcio, rimane la pista da bob di Sarajevo ‘ 84. Un serpente lungo più di tre chilometri, dalla vetta a valle. Oggi è diventato un luogo per writers e street artists, oltre che per visite turistiche di giorno e rave party di notte. La si intravede tra gli alberi e nelle radure panoramiche, da cui si osserva tutta la città. La parte vecchia con le chiese e le moschee, quella ottocentesca coi palazzi dell’amministrazione cittadina e quella socialista, punteggiate di cimiteri piccoli e grandi: con steli bianche in quelli musulmani, di marmi neri quelli cattolici e ortodossi. «Sarajevo è crocevia di quattro religioni e tre etnie: i cattolici croati, i bosniaci musulmani, i serbi ortodossi e gli ebrei. Tutti hanno un luogo di culto nella città e la convivenza è sempre stata pacifica», spiega Alen. «Durante l’assedio morirono 12mila persone e il motto era “resistere fino all’ultima pallottola”. Gli ortodossi ricevettero dai serbi l’invito a lasciare la città indenni, ma la maggior parte rifiutarono e rimasero a combattere per difendere Sarajevo».
Nel 1995, la pista da bob fu teatro dell’unico vero scontro via terra tra eserciti e della battaglia che mise fine all’assedio di Sarajevo. La montagna, già luogo di scontri durante la seconda guerra mondiale e subito occupata dai serbi nel 1992, era completamente disseminata di mine antiuomo ( nonostante le bonifiche, una bomba inesplosa è stata rinvenuta nel 2018) e la pista da bob era una sorta di sopraelevata dal terreno che permetteva ai militari di muoversi senza rischiare di innescare gli ordigni. Quando la Nato diede il via libera alla missione Deliberate Force in risposta al bombardamento del mercato di Sarajevo del 28 agosto 1995, imponendo la ritirata ai serbi asserragliati sulle montagne intorno alla città, il Trebevic fu liberato con un ultimo sanguinoso scontro. La Nato, infatti, chiese l’intervento via terra da parte dei bosniaci di Sarajevo, i quali risalirono a piedi la montagna: i serbi in ritirata utilizzarono la pista da bob come scudo, sparando dai fori aperti nel cemento.
Sul versante opposto, immerso nel verde e nelle cave, si trova l’hotel Igman. Il nome è quello della montagna sulla quale sorge: 162 stanze per 5100 metri quadrati, un perfetto esempio di stile brutalista. Pensato per ospitare i turisti di lusso occidentali, era stato costruito appositamente per le Olimpiadi nei primi anni ottanta. Oggi rimane solo la struttura colossale: un ecomostro in abbandono perso nella boscaglia.
Sparito l’intonaco giallo e bianco degli esterni, distrutte le vetrate che davano sulle piste da sci, l’interno è uno scheletro di mattoni e cemento, con la colossale hall dell’hotel disseminata di pneumatici e sacchi di sabbia dietro cui si nascondevano i cecchini: l’edificio è stato tra i primi ad essere distrutto e occupato dai serbi, che controllavano la corona di montagne intorno alla città per interrompere ogni comunicazione tra Sarajevo e il mondo esterno.
«Tutto il resto delle strutture spiega Alen - è stato riconvertito: le piste da sci, lo stadio... solo la pista da bob e il trampolino per il salto con gli sci sono rimasti com’erano». In particolare la pista da bob «è un monito di quello che ha rappresentato la guerra per la città: ha molto più valore così».
Oggi, sia il monte Igman che il Trebevic sono tornati ad essere luoghi di turismo, frequentati soprattutto dai russi, attratti dai prezzi economici. Attorno all’hotel Igman, invece, le famiglie organizzano pic- nic e camminate. Lungo il tragitto per raggiungere la radura, la segnaletica consumata è ancora visibile, come lo sono i cinque cerchi olimpi- ci che accolgono all’inizio della strada. Di quel febbraio magico, oggi, rimangono i ricordi e le macerie: nel 2018 è stata rimessa in funzione la funivia panoramica che collegava Sarajevo al Trebevic.
Nel 1992, mentre preparavano l’assedio della città, le truppe serbo- bosniache la distrussero e uccisero Ramo Biber, il giovane guardiano dell’impianto, passato alla storia come una delle prime vittime del conflitto. Oggi, con quei 12 minuti di risalita, su Sarajevo sta tornando il sereno.