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Le previsioni economiche di primavera della Commissione europea hanno suscitato disappunto presso diversi esponenti del Governo ( ma il ministro Tria le ha considerate coerenti con il recente DEF).
Al di là delle polemiche, il mio punto è che la Commissione dovrebbe modificare la sua produzione di valutazioni economiche: meno pagine, parole, analisi, numeri e maggiore tempestività nelle elaborazioni. Per evitare di offrire argomenti a coloro che vogliono minare la credibilità delle istituzioni internazionali. Il fastidio dei sovranisti nostrani questa volta ha, infatti, qualche fondamento anche se l’idea che la Commissione faccia “campagna elettorale” mi pare piuttosto fantasiosa. Il problema è che la Commissione si sente obbligata a redigere un report voluminoso ( più di 200 pagine, di cui oltre 80 di parte generale) con tabelle e, soprattutto, commenti, che naturalmente dilatano i tempi di redazione. Pertanto, la pubblicazione esce dopo gli aggiornamenti prodotti dai singoli istituti nazionali di statistica, senza, quindi, tenerne conto ( e poi è sgradevole che si debba arrivare a pagina 82 per leggere che le elaborazioni sono chiuse alla data del 24 aprile 2019: questo va indicato a caratteri cubitali nella prima pagina del rapporto). Col risultato che i contenuti del documento, in astratto pregevoli e utili, perdono significato di fronte all’inadeguatezza di alcune determinazioni numeriche. Per esempio, per l’Italia compare una previsione di crescita del PIL pari allo 0,1%, mentre il Governo ha + 0,2%. Si dirà: decimali, roba da nulla. Sì e no, perchè in un rapporto sulle prospettive di breve periodo i decimali fanno la differenza. Ora lo 0,1% previsto dalla Commissione, dato il + 0,2% del primo trimestre di cui appunto non ha tenuto conto ( l’Istat lo ha pubblicato il 30 aprile), sarebbe compatibile soltanto con un azzeramento della ripresa fino alla fine dell’anno, un evento ampiamente possibile, ma in contrasto con le ipotesi della stessa Commissione che immagina un rafforzamento della ripresa nella seconda parte dell’anno ( output growth will gain more traction only later in the year).
Sarebbe meglio, insomma, se i contenuti del report fossero ridotti all’osso in cambio di un’uscita tempestiva. Sembrano piccole cose, ma la credibilità delle istituzioni, già in discussione, si gioca anche su questi temi.
Secondo autorevoli interlocutori le indicazioni della Commissione sarebbero, invece, in linea con l’impostazione del nostro DEF. Non direi. Per il Governo la crescita 2020 è 0,8% con l’attivazione delle clausole Iva che abbassano il deficit attorno al 2%. Per la Commissione la crescita 2020 è + 0,7% senza l’attivazione delle clausole, compatibile con un deficit al 3,5%. Delle due l’una: o le imposte non impattano su consumi e PIL ( da pazzi sostenerlo) oppure la Commissione sta dicendo che le previsioni del nostro Governo sono molto ottimistiche, cioè che una crescita poco sotto l’ 1% l’anno prossimo è coerente soltanto con un’impostazione molto espansiva della finanza pubblica ( niente Iva con deficit più vicino al 4 che al 3%, cosa che comporta altri problemi, come spiegavo lo scorso 13 aprile su questo giornale).
Poi: una frase del rapporto che ha suscitato grande preoccupazione riguarda la suggestione che la stessa attivazione delle clausole di salvaguardia (+ 23 miliardi di Iva dal 2020) porterebbe l’Italia a una migliore condizione fiscale ( better fiscal outlook). Nella penna di chi l’ha scritta una considerazione neutrale, negli occhi di chi legge una frase agghiacciante. Nessun riferimento al fatto che, in ipotesi, mediamente ciascun nucleo familiare pagherebbe 850 euro di tasse in più, sopportando una pressione fiscale nuovamente ai massimi storici che implicherebbe lo schiacciamento sotto la soglia di povertà assoluta di un’ulteriore frazione di popolazione ( nel 2017 già 5 milioni di poveri).
Sono anche queste prescrizioni che alimentano il rumore nazionalista. Infatti, a leggere tali battute, è facile rappresentarsi il burocrate di Bruxelles che non vede le persone dietro i numeri. I demagoghi amano e sfruttano queste cadute di stile, peraltro del tutto gratuite perché non arricchiscono l’analisi dei dati.
Peccato, perché i documenti ufficiali e la comunicazione costituiscono la faccia e la voce delle istituzioni, soprattutto in mancanza di veri leader europei ed europeisti.
Nel frattempo, lo spread sui nostri titoli sovrani è cresciuto di dieci punti nell’ultima settimana, mentre il rendimento è mitigato dal fatto che il decennale tedesco esibisce un tasso d’interesse negativo. Se con l’avvicinarsi delle elezioni europee la sensazione di un nuovo parlamento diviso e impotente dovesse consolidarsi, anche il bund potrebbe tornare a fruttare una manciata di punti base e di conseguenza il rendimento sui nostri btp potrebbe testare di nuovo quota 300. Peggiorerebbero ulteriormente le già difficili prospettive dei nostri conti pubblici.
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