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caso mario oliverio
Don Ciccio sparava solo ai tordi che si posavano sui rami nudi dei castagni, a botta sicura, in quella ch’era un’imboscata vera e propria. Mastro Gino invece li centrava al volo. Abbatteva persino quelli così alti nel cielo da non venire da credere che il colpo potesse raggiungerli. Don Ciccio non raccoglieva gloria come cacciatore. Mastro Gino, sì. Perché ne emergevano le capacità, la mira eccezionale, la pregevolezza del fucile, se raggiungeva vette parse impossibili. Una situazione simile, nel mondo della giustizia. Più la preda vola alto, maggiori sono gli allori per chi la abbatte. Ma capita spesso che, piuttosto che il tordo, si collimi nel mirino un uccello che non meritava quel piombo addosso.
È successo a Mario Oliverio da presidente della giunta regionale della Calabria, fatto precipitare dalla cima pur estraneo ai reati contestati e sbattuto con ignominia sulle cronache nazionali. Adesso è stato assolto dall’accusa di corruzione e abuso d’ufficio perché “il fatto non sussiste” – assolti con lui, la deputata PD Enza Bruno Bossio e il marito, Nicola Adamo, ex consigliere regionale. Già era emersa l’inconsistenza delle accuse quando la Cassazione parlò di “grave pregiudizio accusatorio” in ordine alla richiesta misura cautelare dell’obbligo di dimora. Due posizioni distanti il giorno e la notte, quella della Cassazione e della sentenza e quella della procura di Catanzaro. Da supportare la tesi che si privilegi la corposa caratura del personaggio perché maggiori diventano i riconoscimenti al promotore dell’operazione, riconoscimenti che rimangono intatti anche se e quando l’indagine sbandierata a pieni polmoni si riduce ad aria fritta, si sgonfia lamentevole più che le zampogne dei pastori aspromontani accartocciate a chiusura del suono. Siccome le sentenze si rispettano, chi ha immaginato il quadro delittuoso, costruendo con sabbia incoerente un castello rovinato miseramente su se stesso, dovrebbe almeno scusarsi per l’abbaglio e porsi un problema di coscienza per il futuro. Uguale riparazione toccherebbe a strilloni e giornalisti di nome che hanno picchiato duro appresso alle tesi strampalate e che oggi tacciono, fischiettano indifferenti, quando correttezza e democrazia pretenderebbero che dessero all’innocenza il risalto dato alle restrizioni. Non ci saranno scuse. Non ci sono mai state e continueranno a non esserci, con buona pace dello sventurato che ci è incappato da ignaro, ha subito la gogna, si è visto trasformata la vita da così a così, è stato tranciato nella carriera e nelle aspirazioni e avrà sempre, a infracidirgli l’animo, la zavorra del torto subito.
È innegabile che c’è un problema giustizia – solo i ciechi e quelli in malafede non lo vedono – con storture da dover riparare in fretta. A non farlo, proseguirà la caduta rovinosa della credibilità della giustizia stessa, già ai minimi storici, e in terre di frontiera, qual è la Calabria, è fondamentale per sconfiggere il bubbone ’ndrangheta. Ed è innegabile che c’è una parte di magistratura inquirente (e di affini), minoritaria ma incidente perché microfonata, showman, prezzemolo di ogni minestra, che scricchiola pericolosamente, che ha forgiato il pensiero unico a cui uniformarsi per sì o per forza – o lo si assume buono o si diventa collusi a prescindere – che non intende accettare l’obbligo del pubblico ministero di cercare con pari scrupolo le prove della colpevolezza e dell’innocenza.
A parte le ossessioni di carriera e di visibilità, campeggia il tentativo di mettere in un unico calderone mafie, politica e sistema economico. Le convergenze e le collusioni esistono certamente, senza che però sia sistematico, una regola, stando almeno all’evidenza che gli intrecci ipotizzati il più delle volte si frantumano in fase processuale e che in carcere restano i malavitosi – cosa non malvagia e che sarebbe perfetta se non comparissero una miriade di politici e di imprenditori sui quali le teorie di partenza rovinano nella polvere.
I numeri a svelare una giustizia che scotta di febbre. In Calabria sono impietosi e raccapriccianti. C’è un’incidenza di innocenza maltrattata, che tale risulta dopo il calvario dei processi, che si attesta oltre il 50%. E allora quant’è accettabile un’inchiesta che include con leggerezza innocenti e colpevoli? Qual è il confine dell’errore giudiziario entro cui si mantiene applicato il concetto di democrazia e di garanzie costituzionali? Fin dove l’errore è fisiologico? E da che punto in poi un’operazione di polizia smette d’essere un successo per trasformarsi in una storpiatura del sistema?
Naturalmente, perfezione pretenderebbe che l’errore giudiziario non si verificasse mai. Ed è umanamente impossibile. Ma, se l’incidenza del carcere su estranei al delitto assume proporzioni vistose, se i malcapitati finiscono con il sommergere per numero i colpevoli, se i colpevoli non ci sono affatto, se le anomalie riguardano quasi tutte le grandi e strombazzate inchieste con arresti a raffica, allora si è in presenza di un crollo della capacità investigativa e di una pericolosa sospensione dei diritti umani – lo si è pure se il blitz ingabbia intere ’ndrine – allora s’impatta in una giustizia arruffona, frettolosa, distratta, cinica, ci si accosta a una deriva autoritaria, a una sorta di regime con il tanfo dello stato di polizia. E non può valere l’assunto che in guerra qualsiasi mezzo sia lecito e che gli agnelli debbano farsi una ragione d’essere finiti in bocca al lupo. In Calabria capita troppo di frequente e Oliverio non è che uno tra la moltitudine oltraggiata. Qui, la popolazione è compressa tra criminalità e criminalizzazione. Qui, esiste un caso giustizia più grave che altrove, e che nuoce alla regione, e al turismo che potrebbe soccorrerla, e che mai attecchirà, se si scoraggiano i vacanzieri alimentando un pregiudizio oltre i demeriti reali, se non si cede l’equazione razzista calabrese uguale ’ ndranghetista.