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Un selfie di troppo. Utilissimo al regime. Il cappio della magistratura è pronto per stringersi al collo di Juan Guaidó, il presidente del parlamento venezuelano autoproclamatosi il 23 gennaio scorso presidente ad interim con il proposito di traghettare il Venezuela alle elezioni.
Guaidó, riconosciuto subito come presidente legittimo dall’Amministrazione Trump, dal governo colombiano e da gran parte della comunità internazionale, naviga da tempo in pessime acque. L’operazione messa a punto per rovesciare il presidente Nicolás Maduro aveva una condizione necessaria per riuscire: la rapidità. Il tempo gioca a favore del regime che, a differenza di Guaidó, controlla i militari e la macchina statale. Il disarcionamento inmediato invece non è riuscito. Maduro è con l’acqua alla gola, ma non affonda. E ciò accade a tutto discapito di Guaidó che si ritrova ad avere di fronte ai venezuelani l’immagine ormai di un leader consunto senza essere stato davvero presidente ad interim nemmeno per mezz’ora. Tutta virtuale la sua leadership. Il tempo che passa senza che lui possa realmente decidere alcunché sulla sorte del paese lo sta politicamente logorando. E’ un momento propizio quindi per il regime per provare a tagliarlo fuori. Finora Maduro non l’ha mai fatto arrestare nel timore della reazione internazionale. Si è limitato a bloccargli i conti e a imporgli il divieto di espatrio. Ma ormai sono passati mesi. Il regime sa che, se è forse ancora un rischio politico eccessivo farlo incarcerare, è di certo il momento buono per tentare di sgonfiare definitivamente la sua leadership.
Per farlo ha scelto di scatenare tutta la propaganda chavista e la Fiscalia venezuelana, cioè la pubblica accusa dello Stato ( interamente in mano al regime) contro una foto, scattata nel febbraio scorso al confine con la Colombia, che ritrae Juan Guaidó vicino a due uomini definiti “paramilitari di estrema destra e narcotrafficanti”. Un selfie. Ma con due supposti membri della banda narcos “Los Rastrojos”.
Essendo il Venezuela in rotta totale con la Colombia, con relazioni diplomatihe ridotte al lumicino e costanti accuse reciproche di tentativi di ingerenza, lo scatto è sufficiente a rincarare la dose di accuse di “tradimento della patria” che piovono su Guaidó da mesi. Nel frattempo è stata anche rivista, con aggravio della pena, la norma che sanziona il reato di tradimento.
Guaidó dice che non ha idea di chi fossero quei due, che quando è in giro chiunque gli passi accanto gli chiede una foto insieme e lui non può controllare prima i precedenti penali di ciascuno.
Tarek William Saab, il capo della Fiscalia venezuelana, ha già detto che intende processarlo per «legami con narcotrafficanti e paramilitari». Il suo discorso aveva un tono di sfida evidente: «Questa storia che i due fossero due passanti non se la beve nessuno – ha detto Tarek William Saab – Los Rastrojos sono una banda formata da fuoriusciti del gruppo paramilitare Autodefensas Unidas de Colombia, smobilitata nel 2006. Sapeva il governo del presidente colombiano Iván Duque?».
Grande risalto nel frattempo il regime ha fatto dare al fatto che a marzo è stato arestato a Valencia un membro dei Rastrojos, tale Wilfrido Torres Gómez. La propaganda chavista assicura che la localizzazione di Torres Gómez è stata possibile grazie alla delazione di Roberto Marrero, segretario di Guaidó arrestato arbitrariamente dalla polizia politica il 21 marzo scorso. Altri collaboratori di Guaidó sono già stati arrestati ( il vicepresidente Edgar Zambrano, da maggio in una prigione militare, è stato scarcerato mandato ai domiciliari). Guaidó non è mai stato fermato, ma il regime si è premurato di togliergli la immunità parlamentare e da mesi è indicato come il responsabile dei black out che hanno lasciato più volte al buio il Venezuela nei mesi scorsi. Il rischio di un arresto, che sarebbe un atto clamoroso da parte di Maduro rispetto alla comunità internazionale” esiste ed è alto. Soprattutto perché è molto facile associare Guaidó alla estrema destra colombiana, che ha avuto un ruolo essenziale nel lancio della operazione di autoproclamazione del presidente del parlamento come leader di riferimento contro Maduro.
Il lavoro è iniziato dopo che è saltata la trattativa tra regime e opposizione tentata in Repubblica domenicana un anno fa. La regia dell’operazione è stata dei due storici capi dell’opposizione venezuelana: Leopoldo López, di cui Guaidó era il numero due, e Julio Borges.
López, 48 anni, del partito Voluntad popular, è il più radicale degli antichavisti di lungo corso, ex sindaco di Chacao ( quartiere borghese di Caracas est) incarcerato dal regime, è ora ai domiciliari a Caracas.
Sarebbe stato lui a imporre ai settori dell’opposizione più moderati, inizialmente contrari ad abbandonare l’idea di un tavolo di negoziato col regime, il piano di un’autoproclamazione di Guaidó alla presidenza ad interim. López non ha mai nascosto d’avere ambizioni presidenziali.
Viene attribuita a López una registrazione audio, spuntata i primi giorni dello scorso gennaio, in cui si tracciano i passi da far compiere a Guaidó per segnare la fine di Maduro. Come ad avvisare: va in piazza lui, ma il candidato alla presidenza resto comunque io.