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Non manca la letteratura sul fenomeno mafioso, così come non mancano i libri su Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che, puntualmente, escono nelle librerie a ridosso di ogni anniversario delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Negli ultimi anni, però, è sempre più difficile trovare libri sul tema che si distinguano in qualche modo dai romanzi fantasy, senza una vera ricerca delle fonti, lettura degli atti processuali, verbali, testimonianze credibili e che restituiscano il vero pensiero dei due giudici. Ciò sta creando un analfabetismo culturale di ritorno. La mafia scompare come attore principale, e a lei si sostituiscono non meglio precisate entità. Manca un punto di riferimento sia per i giovani che cominciano ad approcciarsi alla storia terribile di Cosa nostra, sia per quelli che hanno una conoscenza maggiore ma rischiano di perdersi.
Da qualche tempo, però, nelle librerie è uscito il libro edito da Newton Compton Editori, dal titolo “Le due stragi che hanno cambiato la storia d’Italia”. L’autore è Vincenzo Ceruso e gli va riconosciuto il merito di aver ricostruito in maniera scrupolosa sia la nascita della mafia corleonese che la via crucis che dovettero affrontare Falcone e Borsellino. Un libro che è utile anche per gli addetti ai lavori, magistrati compresi. Vincenzo Ceruso è un palermitano, allievo di padre Pino Puglisi, si è occupato di devianza con la comunità di Sant’Egidio e ha già scritto numerosi libri sulla mafia. Balza subito all’occhio che l’autore per scrivere questo libro ha svolto una scrupolosa ricerca, non tralasciando nulla e arricchendo di particolari, anche inediti, la genesi delle stragi. Chi si aspetta la solita storia di entità che eterodirigono la mafia, rimarrà deluso. Così come, d’altronde, rimasero delusi coloro che da Falcone attendevano una narrazione alla James Bond e di una Spectre che governava gli eventi. La questione è più semplice e complessa nel contempo. Il sistema binario, in questo libro non è contemplato. Si intravvedono sfumature, dubbi, ma anche fatti certi e inoppugnabili che aiutano lo spirito critico. Tale esercizio va fatto costantemente, ma solo se si ha la conoscenza dei fatti. Questo libro è indispensabile per chi vuole intraprendere tale percorso.
“Le due stragi che hanno cambiato la storia d’Italia” però narra anche la lotta, sofferenza e isolamento dei due giudici. I primi a colpirli, soprattutto Falcone, sono stati i loro colleghi. C’è un capitolo del libro dove si fa un riferimento intellettuale al “dito di Leonardo Sciascia”. L’autore cita una riflessione dello scrittore di Racalmuto relativa all’assassinio del procuratore Gaetano Costa. Lo fa dopo alcune settimane dal delitto eccellente di Cosa nostra, in una intervista rilasciata a Felice Cavallaro. Alla domanda su cosa ne pensava della riunione nel corso della quale Costa, in contrasto con alcuni magistrati, decise di firmare i mandati di cattura contro i bossi del traffico di droga, Sciascia ha risposto così: «Uno scrittore americano, Damon Runyon, un umorista, usa un termine mutuato dal gergo della malavita, il dito. Chiama così colui che indica le persone da uccidere, da sequestrare, da rapinare. Credo che in Italia, in ogni ambiente ed in ogni categoria, ci sia un dito, e questo vale anche per certi omicidi del terrorismo. Il dito può funzionare per volontà, consapevolmente, e può funzionare incidentalmente; per esempio, lasciando solo la persona che vuol fare qualcosa».
Vincenzo Ceruso rivela che questa intervista è stata molto apprezzata da Falcone, il quale la cita durante un convegno. Ma soprattutto, il riferimento a Sciascia è nitido in una pagina dell’ordinanza che avvia il maxiprocesso. L’autore del libro “Le due stragi che hanno cambiato la storia d’Italia” l’ha scovata e si tratta di un passaggio fondamentale relativo all’omicidio del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie e l’agente di scorta. Anche in questo caso vale la pena riportarlo: «Un noto scrittore siciliano, a proposito degli omicidi di pubblici funzionari, ha elaborato una interessante teoria secondo cui la mafia attacca e uccide quando la vittima, particolarmente distintasi per l’impegno profuso nella repressione del fenomeno mafioso, non appare assistita e circondata dall’appoggio e dal consenso delle istituzioni, per cui appare all’esterno come una monade isolata, impegnata in una sorta di crociata personale». Inutile dire che, leggendo questo passaggio, inevitabilmente la pelle è attraversata da un brivido. È esattamente quello che poi accadrà a lui stesso: il ditino contro Falcone che proviene dai suoi stessi ambienti lavorativi.
Cosa che poi dovrà affrontare anche Borsellino. Quel dito che in qualche modo sembra rievocarlo quando, proprio il giorno prima dell’attentato a Via D’Amelio, il giudice disse alla moglie Agnese che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere. “Il dito di Sciascia” che riappare sulla bocca di Borsellino. Un dito che però, di fatto, viene ricercato altrove. Lo stesso Ceruso, in un capitolo del libro fa riferimento a una audizione di un magistrato che sembra mutuare le parole di Borsellino. Scompaiono i colleghi e appaiono i servizi segreti deviati. Le “entità”, definizione che va di moda.
Ma quel dito, nel caso delle stragi, soprattutto quella di Via D’Amelio crea l’humus per poter neutralizzare i giudici, sia per vendetta che per cautela preventiva. Soprattutto quest’ultima che va ad inserirsi nell’interessamento dell’indagine su mafia appalti. L’autore, e per la prima volta lo troviamo in maniera dettagliata in un libro, spiega bene ogni minimo particolare. Solo leggendolo, con tanto di riferimenti documentali, un lettore desideroso di conoscenza può comprenderne l’importanza. Ceruso ci tiene a ricordare che sia Falcone che Borsellino erano considerati nemici numero uno da Cosa nostra fin da subito. Comincia con l’ascesa di Totò Riina - qui l’autore spiega molto bene la sua figura che è l’incarnazione vivente dell’anti- trattativa -, il quale non scende a patti con nessun potere, distrugge la vecchia mafia e ne crea una nuova. Soprattutto desiderosa di eterodirigere l’amministrazione pubblica fino ad essere quotata in Borsa. Ceruso ricorda le indagini di Borsellino che colpirono a segno la mafia e l’episodio che gli stravolse la vita. Primo tra tutti, l’omicidio del capitano Emanuele Basile. La mafia proverà ad avvicinarlo attraverso dei segnali, ma rifiutò e andò avanti con l’indagine entrando nel cuore del mandamento di San Giuseppe Jato. Siamo nel 1980 e Totò Riina voleva ucciderlo, e con lui ha individuato Basile che era riuscito a fare una indagine capillare. Quest’ultimo sarà ucciso alle spalle dai sicari mentre, assieme alla moglie e figlia piccola, mentre partecipava a una processione del santissimo crocifisso di Monreale. Dirà il giornalista Attilio Bolzoni: «Quella sera cambiò per sempre la vita di Paolo Borsellino».
Il libro va letto tutto, perché ci sono dettagli che nel tempo sono sfuggiti, oppure evaporati tra tesi giudiziarie inconcludenti, seppur affascinanti. La vicenda di Cosa nostra e le stragi, non sono un romanzo. Non si può fantasticare su fatti tragici. Basta Cosa nostra stessa che, durante l’epoca corleonese, usava una tecnica – così ricorda l’autore nel libro - che evoca la strategia terrorista sudamericana: attuava omicidi e stragi depistandoli attraverso sigle come quella della “falange armata”. Ai tempi dell’impoverimento culturale, dove purtroppo mancano intellettuali e storici di riferimento, il libro di Ceruso è una boccata d’ossigeno. Da leggere per chi vuole riconciliarsi con la verità storica e giudiziaria. E magari riprendere il percorso tracciato da Falcone stesso.